Il presidente americano Donald Trump e il leader nordcoreano Kim Jong un si sono impegnati a lavorare per la completa denuclearizzazione della penisola coreana. È questo il punto più importante del documento comprensivo che i due hanno firmato al termine dello storico incontro avuto a Singapore il 12 giugno. In cambio della rinuncia al programma atomico da parte dei nordcoreani, gli Stati Uniti provvederanno alla sicurezza del vecchio nemico. Trump si aspetta che la denuclearizzazione avvenga “molto, molto velocemente”, tuttavia il documento finale non ha fornito dettagli su come i due Paesi intendano raggiungere questo obiettivo. Il summit di Samosa, una delle isole di Singapore, passerà alla storia come il primo incontro tra un presidente americano in carica e un leader della Corea del Nord, ma il suo significato potrebbe essere soltanto simbolico. Molti analisti hanno già manifestato un certo scetticismo sulla possibilità che l’incontro porti a risultati concreti.

Anthony Ruggero, membro del think tank di Washington Foundation for defense of democracies, ha affermato che il documento di oggi è simile alla dichiarazione congiunta del 2005, con la quale veniva sancito lo stesso impegno a favore della denuclearizzazione della penisola coreana. “Non è ancora chiaro – ha affermato Ruggero – se i negoziati che seguiranno all’incontro del 12 giugno porteranno davvero alla denuclearizzazione. Il documento di oggi sembra una ripetizione degli impegni presi di più di 10 anni fa e non stabilisce alcun passo in avanti. La Corea del Nord ha fatto le stesse promesse tante volte in passato, ora resta da capire se il segretario di Stato Mike Pompeo e la sua controparte nordcoreana saranno in grado di compiere gesti concreti a favore di una sostanziale e irreversibile denuclearizzazione”.

 

 

Anche Stewart Jackson dell’ Università di Sydney ha sottolineato la mancanza di chiarezza sul tema della denuclearizzazione e su cosa questo termine voglia dire per gli Stati Uniti e per la Corea del Nord. Secondo Jackson, il documento sottoscritto da Trump e Kim non costituisce un grande accordo. Tuttavia, ha precisato lo studioso, anche la visita di Nixon in Cina all’inizio degli anni Settanta non sembrava aver portato a grandi cambiamenti nell’immediato, eppure innescò un processo di trasformazione del Paese asiatico. “Potrebbe annoiare qualcuno – ha detto ancora Jackson – pensare che sia stato proprio Trump a determinare un cambiamento degli equilibri in Asia orientale. Non conta però chi sia a farlo, conta soltanto la pacificazione della penisola coreana”, ha concluso. Non è da escludere dunque che il documento firmato da Trump e da Kim al Capella Hotel di Samosa possa essere seguito da un lungo processo di distensione tra USA e Corea del Nord, ma per il momento l’opinione più diffusa è che il summit sia stato solo una nuova occasione per riprendere il solito filo delle promesse ripetutamente infrante dalla Corea Nord. Per Li Nan, ricercatore presso Pangoal, think tank di base a Pechino, è troppo presto infatti per considerare il summit “un punto di svolta nelle relazioni tra i due Paesi”.

Anche il resto del documento non sembra nulla di più di una riaffermazione degli impegni precedenti perché sancisce genericamente la necessità di dare vita a nuova era nei rapporti tra Washington e Pyongyang; la volontà di realizzare una pace duratura per la penisola coreana più quella di lavorare per la denuclearizzazione, come stabilito dalla Dichiarazione di Panmunjom firmata dal presidente sudcoreano Moon Jae in e Kim Jong un lo scorso 27 aprile. L’ultimo dei quattro punti della dichiarazione del 12 giugno fa riferimento al rimpatrio dei prigionieri di guerra catturati dai nordcoreani e già identificati.

 

 

In sostanza, Stati Uniti e Corea del Nord si sono accordati per dare vita a un processo sistematico di negoziazione che potrebbe condurre a qualcosa di significativo, ma potrebbe anche confermarsi un totale insuccesso. Il summit più atteso di sempre nella storia dei rapporti bilaterali tra USA e Corea del Nord potrebbe essere definito una sorta di via di mezzo tra lo scenario migliore e quello peggiore ipotizzati dagli analisti. Nel migliore dei casi Trump e Kim avrebbero dovuto accordarsi per definire chiaramente i tempi e i modi necessari alla denuclearizzazione, cosa che non è avvenuta. Secondo quello peggiore, invece, non solo il summit sarebbe stato un fallimento, ma dopo l’incontro infruttuoso, i due leader avrebbero ripristinato i toni accessi, gli insulti e le schermaglie dei mesi passati. Il summit di Singapore, al contrario, è come “old wine in new bottles”, così Joshua H. Pollack, ricercatore del Middlebury Institute of International Studies di Monterey, ha definito questa specie di terza via. Un modo di dire che rende bene l’idea: far credere che sia cambiato qualcosa, mentre tutto è esattamente uguale a prima.