Scivola sempre più nel caos profondo la crisi yemenita. Un nuovo focolaio di instabilità divampa ad Aden, strategica città portuale del sud del Paese, capitale della Repubblica Democratica Popolare dello Yemen dal 1970 al 1990 fino all’unificazione del Paese sotto un’unica bandiera.

Lunedì 22 gennaio, Aidarous Al Zubaidi, leader del Southern Transitional Council (Consiglio di Transizione del Sud), ha dichiarato lo stato d’emergenza ad Aden e minacciato la destituzione del presidente Hadi entro una settimana se questi non rimuoverà il suo primo ministro Ahmed Bin Daghr e i componenti dell’ufficio di gabinetto.

A spalleggiare Al Zubaidi, ex governatore di Aden licenziato da Hadi, ci sono i miliziani del Southern Resistance Forces, gruppo armato scontratosi più volte con le forze fedeli al presidente per il controllo delle aree strategiche del sud del Paese.

L’annuncio del 22 gennaio segna uno strappo all’interno della coalizione militare araba che dall’inizio del 2015, sotto la guida di Riad, tenta senza successo di soffocare la rivolta dei ribelli sciiti Houthi – armati dall’Iran – e ristabilire al potere il presidente Hadi.

 

Il piano degli Emirati Arabi Uniti

Dietro Al Zubaidi e i vertici militari del Southern Resistance Forces che affermano di avere in pugno Aden ci sono gli Emirati Arabi Uniti, la cui strategia in Yemen è mossa ormai in modo evidente da interessi divergenti rispetto a quelli di Casa Saud.

Obiettivo del principe ereditario emiratino Mohammed Bin Zayed è cavalcare la spinta dei secessionisti del sud e favorire l’istituzione di una repubblica autonoma nella parte meridionale del Paese. Potendo disporre di un proprio protettorato in quest’area, Abu Dhabi si garantirebbe il controllo dello stretto di Bab el-Mandeb da dove transitano portacontainer e petroliere che dai mari dell’Asia risalgono il Canale di Suez per entrare nel Mediterraneo.

Per dare concretezza al suo ambizioso piano il principe Bin Zayed finanzia da anni una rete di milizie locali sul territorio – con in testa il Southern Resistance Forces – e ha creato un sistema di sicurezza “parallelo” a quello che risponde ad Hadi e all’Arabia Saudita, in grado di disporre oltre che di uomini e mezzi anche di carceri secondo quanto denunciato da Human Rights Watch.

 

Riad ostaggio del conflitto

Incapaci di avere la meglio sui ribelli Houthi, e in rotta con il loro principale alleato all’interno della coalizione araba, i sauditi sembrano essere sempre più ostaggio di questo conflitto. Una guerra che finora Casa Saud non è riuscita a risolvere né con le raffiche di raid aerei, né con gli aiuti umanitari. Una carta, quest’ultima, che sventola ogni qualvolta aumenti la pressione nei suoi confronti da parte della comunità internazionale (l’ultimo contributo, pari a 1,5 miliardi di dollari, è stato annunciato il 22 gennaio).

Se le “regole” dello scontro continueranno a rimanere tali, Riad alla distanza non potrà che rassegnarsi ad assistere alla spartizione dello Yemen e a vedere la parte nord-ovest del Paese transitare definitivamente sotto la sfera d’influenza iraniana.

 

L’inerzia della comunità internazionale

Con tutte le attenzioni mediatiche rivolte verso la Siria e la battaglia in corso per Afrin, è irrealistico aspettarsi una decisa presa di posizione da parte della comunità internazionale. E anche il monito al dialogo lanciato il 22 gennaio da Mosca dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, nel corso di un incontro con il suo omologo yemenita Abdulmalik al-Mekhlafi, appare destinato a perdersi tra le macerie dei bombardamenti e gli orrori di questa catastrofe umanitaria: più di 9mila i morti, oltre 2mila dei quali per il colera, e 8,3 i milioni di yemeniti che non hanno né cibo né medicine.