La destituzione di Omar Al Bashir da parte dei militari in Sudan restringe il cerchio attorno ai dittatori ancora saldamente al potere in Africa.

In Ciad Idriss Déby Itno è in carica dal 1990, da quando alla guida del suo Movimento Patriottico di Salvezza rovesciò il suo predecessore Hissène Habré. Da allora è stato rieletto nel 1996, nel 2001, 2006, 2011 e nel 2016 e finora ha sempre schivato le accuse di brogli, corruzione e persino il sospetto di aver ordinato omicidi di alcuni suoi avversari politici.

L’uomo solo al comando nella Repubblica del Congo è Denis Sassou Nguesso. Dopo essere salito al potere nel 1979 a seguito di un colpo di Stato, fu spodestato nel 1992 da Pascal Lissouba, suo contendente alle presidenziali. Cinque anni dopo, nel 1997, si è però ripreso il Paese al termine di un violento conflitto civile. Da allora ha smontato e rimontato a proprio piacimento la Costituzione, trovando il modo di potersi ricandidare per un quarto mandato nel 2016 e rivincendo ovviamente le elezioni.

Percorsi paralleli uniscono tuttora i presidenti di Uganda e Rwanda, Yoweri Museveni e Paul Kagame. Fondatore del Movimento Nazionale di Resistenza e del suo braccio armato NRA (National Resistance Army) con cui conquistò il potere nel 1986, Museveni è da oltre trent’anni capo di Stato in Uganda, riconfermato al suo quinto mandato alle presidenziali del 2016. Nonostante le accuse di brogli e l’atmosfera intimidatoria a più riprese denunciata da osservatori internazionali e ong locali e internazionali, Museveni è un alleato prezioso per gli USA nella lotta al terrorismo in Africa nonché uno dei maggiori contribuenti ai contingenti militari nelle missioni di pace dell’Unione Africana e delle Nazioni Unite, ragion per cui la sua poltrona al momento non sembra essere particolarmente a rischio. Nel vicino Rwanda è grazie al sostegno di Museveni che nel 1994 Paul Kagame prese il potere alla guida del Fronte Patriottico Rwandese, movimento militante nato per contrastare il genocidio contro i Tutsi (l’etnia a cui appartiene Kagame) e che una volta al potere si accanì contro gli Hutu. Kagame è saldamente al potere dal 1994 quando fu nominato vice presidente e ministro della Difesa. Nominato presidente nel 2000, è stato confermato nel 2003, nel 2010 e nel 2017. È considerato un criminale di guerra dalle Nazioni Unite. Ma come nel caso di Al Bashir – su cui da anni pendono le accuse della Corte penale internazionale per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra perpetrati nella regione occidentale del Darfur, ma fatto fuori dal suo esercito – non saranno le “pressioni” della comunità internazionale a mettere in discussione la sua carica.

Ci sono poi Isaias Afewerki, presidente dell’Eritrea dal 1993, e il monarca assoluto dello Swatziland Mswati III, in carica dal 1982. Ma è il presidente della Guinea Equatoriale, Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, a guadagnarsi il primato di capo di stato africano putschista più longevo, rimasto in carica ininterrottamente dal 1979 quando rimosse con un colpo di stato militare il regime autoritario di suo zio Francisco Macias Nguema. Il piccolo Paese ricco di giacimenti di petrolio e gas naturale, anche denominato “la Corea del Nord africana” proprio per via dello strapotere della famiglia Obiang, rappresenta oggi il peggior esempio di cleptocrazia (modalità di governo deviata che rappresenta il culmine della corruzione politica), con un presidente al potere da quarant’anni e rieletto al suo quinto mandato settennale alle elezioni del 2016.

Chi sarà il prossimo dopo Al Bashir?

La destituzione di Omar Al Bashir, che è stato al potere in Sudan ininterrottamente dal 1989, innesca adesso l’interrogativo su quale sarà il prossimo dittatore africano a fare la sua stessa fine. Negli ultimi anni prima di lui è toccato al gambiano Yahya Jammeh, in carica dal 1994 (anno del colpo di Stato che rimosse Dawda Jawara) e costretto nel 2017 a cedere il posto di presidente al vincitore delle ultime elezioni Adama Barrow. Nel caso della destituzione del presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe, messo alla porta nel novembre del 2017 dopo trent’anni di governo e sostituito dal suo ex alleato Emmerson Dambudzo Mnangagwa, si è trattato di un “golpe dolce” con i militari che hanno condotto la transizione evitando spargimenti di sangue.

Come nel caso dello Zimbabwe e del Gambia, anche in Sudan è stato l’esercito l’indiscusso ago della bilancia che alla fine si è spostato sul piatto delle proteste del popolo. Ciò però non esclude affatto ulteriori spargimenti di sangue tra i civili e anzi configura per il Paese, quantomeno nel medio termine, l’instaurazione di un nuovo regime militare con nuovi attori al comando. In assenza di democrazie realmente “forti”, nel continente africano saranno loro ancora a lungo a decidere a chi affidare il potere. Lo sa bene anche il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi. Al netto dell’appoggio internazionale trasversale di cui gode, il generale corre costantemente il rischio di essere risucchiato dai suoi militari. La storia del suo continente e del suo Paese non è di certo dalla sua parte. Dagli anni Cinquanta del Novecento a oggi l’Africa è il continente che ha conosciuto il maggior numero di colpi di stato e rovesciamenti militari: oltre 80, di cui in buona parte riusciti. E tra i Paesi africani l’Egitto è uno degli Stati dal golpe particolarmente facile. L’ascesa dei “Liberi Ufficiali” del colonnello Gamal Abdul Nasser nel 1952, e quella fresca proprio di Al Sisi nel 2013 ai danni del leader dei Fratelli Musulmani Mohammed Morsi, sono momenti ancora caldi nella memoria del popolo egiziano.