Campagne militari mirate e radicamento nei territori conquistati attraverso la mediazione con i leader di comunità e tribù locali. Alla brutalità e al sensazionalismo degli attentati sferrati dallo Stato Islamico in tutto il mondo, negli ultimi anni Al Qaeda ha contrapposto una strategia di soft power che sta permettendo all’organizzazione jihadista guidata da Ayman al-Zawahiri di confermarsi quale prima minaccia terroristica a livello globale rispetto al Califfato di Abu Bakr Al Baghdadi.

Quella su cui sta puntando la leadership qaedista nasce in realtà dall’esigenza di rifondare a ogni suo livello l’organizzazione e risollevarla da uno stato di debolezza causato dalla massiccia risposta militare degli Stati Uniti agli attacchi dell’11 settembre del 2001 e dall’uccisione di Osama bin Laden nel 2011.

Congelando in questa fase la tattica degli attacchi diretti contro l’Occidente, missione che resta comunque prioritaria per l’organizzazione come più volte ribadito da Al-Zawahiri, Al Qaeda ha prima rilanciato le propria ambizioni internazionali annunciando nel settembre del 2014 la nascita di AQIS (Al Qaeda nel subcontinente indiano), mentre negli ultimi mesi ha sfruttato a proprio favore le battute d’arresto patite dallo Stato Islamico in Medio Oriente e Nord Africa per consolidare la propria presenza in diversi fronti strategici: Afghanistan, Yemen, Somalia e Sahel.

 

Afghanistan

 Nel gennaio del 2015 lo Stato Islamico ha annunciato la nascita dell’emirato islamico del Khorasan, antico nome della provincia più orientale dell’impero persiano che ad oggi si estende dal nord-est dell’Iran al subcontinente indiano passando per Afghanistan, Pakistan Uzbekistan, Turkmenistan e Tajikistan. Una mossa che rientra nel piano del Califfato di “aggredire” l’Asia meridionale dove risiede un bacino enorme di musulmani (in totale sono oltre 400 milioni) da affiliare.

In Paesi come il Bangladesh, l’Indonesia, le Filippine e soprattutto il Pakistan il piano di ISIS ha finora prodotto riscontri concreti soprattutto sul piano degli attentati compiuti. L’espansione in Afghanistan si sta rivelando invece molto più difficoltosa. Qui Al Qaeda ha mantenuto uno stretto rapporto con la leadership dei talebani anche dopo la morte del Mullah Omar, in accordo con i talebani intercetta alcune delle principali rotte dei traffici di oppio e nonostante le recenti uccisioni di alcuni dei suoi uomini chiave da parte degli USA, vanta un radicamento nel Paese nettamente superiore rispetto a ISIS.

Se lo Stato Islamico non punterà a compromessi tanto con i talebani (difficili se non impossibili al momento) quanto con gruppi islamisti che operano negli altri Paesi dell’Asia meridionale, difficilmente sul lungo periodo potrà eguagliare Al Qaeda.

 

Yemen

Negli ultimi anni in Yemen il divario tra Al Qaeda e Stato Islamico in Yemen si è ridotto a favore di quest’ultimo. Le milizie affiliate al Califfato (IS-Y, ISIS in Yemen) si sono infatti mostrate capaci di compiere attentati eclatanti e di guadagnare progressivamente terreno. Entrambi i gruppi hanno sfruttato il caos generato dal conflitto tra le forze governative yemenite (appoggiate da un’ampia coalizione di Paesi arabo-sunniti guidata dall’Arabia Saudita) e i ribelli sciiti Houthi (sostenuti dall’Iran e dalle milizie fedeli all’ex presidente Saleh), concentrato principalmente nella parte orientale e nord-orientale del Paese, per avanzare a sud lungo la fascia costiera bagnata dal Golfo di Aden.

Prima di perderne il controllo nell’aprile del 2016, AQAP (Al Qaeda nella Penisola Araba) ha controllato per oltre un anno Mukalla, città portuale strategica, capoluogo della provincia dell’Hadramawt da dove ogni giorno transitano traffici marittimi del valore di 2 milioni di dollari. Secondo le stime USA, AQAP arrivata a contare fino a oltre 4.000 combattenti in Yemen. Per estendere e rafforzare la propria influenza, i qaedisti hanno stretto alleanze con i movimenti separatisti del sud, cosa che invece finora non è stata fatta da ISIS neanche in questo scacchiere.

 

Somalia e Sahel

L’espansione di ISIS in Africa negli ultimi anni è stata sotto gli occhi di tutti, al netto della perdita delle roccaforti che erano state conquistate lungo le coste libiche. Lo Stato Islamico ha messo radici non solo in Nigeria, dove l’affiliazione di Boko Haram al Califfato è stata sancita nel marzo del 2015 con il passaggio del gruppo sotto la nuova denominazione ISWAP (Islamic State’s West African Province), ma anche in Tunisia, Algeria e soprattutto in Egitto. Ad oggi, infatti, la Provincia dello Stato Islamico nel Sinai rappresenta la principale minaccia per la stabilità del governo del presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi.

In contrapposizione a questa avanzata, Al Qaeda mantiene l’affiliazione con i somali di Al-Shabaab, che oltre a rappresentare un pericolo costante non solo per il governo di Mogadiscio ma anche per il Kenya, stanno facendo tabula rasa dei gruppi dissidenti annidati nel nord-est della Somalia, principalmente nella regione semi-autonoma del Puntland.

Il vero epicentro di Al Qaeda in Africa resta però il Sahel. Nel marzo del 2017 è stata annunciata la nascita della nuova organizzazione Jamaat Nasr Al islam wa Al mouminin (“Gruppo per la vittoria dell’Islam e dei suoi fedeli”), risultato della fusione tra AQIM (Al Qaeda nel Maghreb Islamico), Ansar Eddine, Al-Mourabitoune (“Le sentinelle”) e il gruppo salafita Fronte di Liberazione di Macina. Facendo leva su conflitti etnici (come in Mali) e controllando i traffici di armi, esseri umani e droga che transitano nell’area fino alle coste settentrionali del continente, l’organizzazione è destinata a dettare legge ancora a lungo, forte della centralità al suo interno della primula rossa d’Africa Mokhtar Belmokhtar.