«Non vedo nessun vantaggio nel riportare, eventualmente, l’ambasciata degli Stati Uniti a Tel Aviv». Avevano fatto un certo scalpore le parole di Pete Buttigieg quando, lo scorso giugno, aveva dichiarato di accettare – in buona sostanza – la decisione di Donald Trump di spostare l’ambasciata Usa in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Il sindaco di South Bend, Indiana, candidato alle presidenziali 2020 come Democratico, aveva sottolineato la necessità di avere una visione d’insieme del Medio Oriente, una che non guardasse certi dettagli separati dal contesto.
La posizione di Buttigieg sembra essere diventata mainstream tra i più importanti rappresentanti del partito Democratico alle prossime elezioni per la Casa Bianca. La stessa senatrice Elizabeth Warren, che per il Commander in Chief sembra avere un’idiosincrasia elevata alla massima potenza, ha preferito glissare sulle domande dell’agenzia Axios sull’argomento. E la coda si allunga anche con l’ex Vicepresidente Joe Biden, la senatrice Kamala Harris, e i senatori Bernie Sanders e Cory Booker: sono i maggiori esponenti del partito dell’asinello per il 2020, verosimilmente il candidato che sfiderà il partito Repubblicano verrà fuori da questa rosa di nomi, e nessuno di loro ha espressamente dichiarato di voler riportare la massima rappresentanza diplomatica a Tel Aviv.
Il presidente Trump decise di spostare l’ambasciata a Gerusalemme nel 2017, e portò l’operazione a compimento nel maggio 2018, provocando grandi proteste dei palestinesi nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Una scelta che aveva provocato forti reazioni da parte di tutti gli oppositori anche negli States, non solo tra i vertici democratici. La critica più grande descriveva quella mossa come un punto di non ritorno: avrebbe creato un escalation di tensione nella regione e avrebbe reso praticamente impossibile ricucire i rapporti tra israeliani e palestinesi, ammesso che ci sia qualche possibilità.
Oggi quella fiamma di protesta sembra spenta, o quantomeno affievolita. Anzi, l’obiettivo a questo punto è quello di mantenere lo status quo. Anche perché riportare l’ambasciata a Tel Aviv rischierebbe di incrinare le relazioni con lo Stato di Israele: molti candidati democratici hanno spiegato, infatti, che si tratta di un argomento talmente delicato che anche un singolo passo falso – non solo politico, basta una semplice dichiarazione fuori posto – può creare tensioni nell’area. A dimostrazione che nella diplomazia non si può dare nulla per scontato, nemmeno una relazione duratura come quella tra Usa e Israele.
Ma non solo. È possibile, infatti, che i front runner del Democratic Party abbiano scelto di attaccare il presidente in carica su altri temi. Come la politica interna o tutti quegli argomenti che una buona fetta dell’elettorato considera più importanti, perché più impattanti sul territorio e sulla quotidianità dei cittadini. Immigrazione, tasse, terrorismo, ambiente: è molto probabile che Buttigieg, Warren, Sanders e tutti gli altri conservino le loro stoccate migliori su questi argomenti per parlare alla pancia del Paese. Proprio come aveva fatto Donald Trump nel 2016.
Photo: Democratic presidential candidate Sen. Elizabeth Warren, D-Mass., speaks at a Service Employees International Union forum on labor issues, Saturday, April 27, 2019, in Las Vegas. (John Locher/AP)
Alessandro Cappelli
Giornalista professionista appassionato di politica internazionale e sport. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all'Orientale di Napoli con una tesi in Storia dell'America Latina. Collabora con Rivista Undici e Linkiesta. Ha scritto il libro "STAND UP, SPEAK OUT. Storia e storie di sport e diritti civili negli Usa".
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