Uno dei più grandi amici di MBS è un uomo potentissimo il cui acronimo dice già mol- to del rapporto tra i due: si chiama MBZ, Mohammed Bin Zayed, ed è il principe ereditario di Abu Dhabi, politicamente il più importante dei sette emirati che compongono gli Emirati Arabi Uniti. Inondato dai ricavi del pe- trolio e della orente città-stato di Dubai, MBZ ha reso gli Emirati una sorta di Singapore mediorientale: ricca, e ciente e autoritaria. Il principe, non ancora cinquantenne, è un ex pilota di elicotteri militari dal portamento modesto e all’occidentale, che tradisce la sua enorme influenza su tutto il Medio Oriente e oltre, a cominciare dagli Stati Uniti.

MBZ ha sempre visto in MBS un se stesso più giovane, ed è stato il primo a spendersi per farlo arrivare dove è oggi. Scrive Dexter Filkins del New Yorker del rapporto tra loro: «I due reali hanno una visione geopolitica molto simile. MBS ha fatto rife- rimento alla Fratellanza Musulmana e ai suoi alleati come le “forze del male” e, come MBZ, considera l’Iran come il grande nemico del suo Paese. Questa rivalità risale no all’Impero Safavide, che nel XV secolo travolse la Persia e governò su gran parte del mondo arabo per due secoli. Negli ultimi anni, i funzionari sauditi e degli Emirati hanno guardato con allarme alla presenza sempre più dominante in tutta la regione del regime sciita».

L’avversità per di entrambi l’Iran è tale che, insie- me, Riad e Doha si sono spinti nel 2015 a intervenire militarmente nello Yemen, dove i ribelli sciiti Houthi sostenuti dall’Iran hanno messo la capitale Sanaa sotto assedio, convinti di riuscire a prendere il potere anche a costo di dividere in due il Paese. Questo è costato a sauditi ed emiratini una guerra prolungata che ancora nel 2018 non conosce ne, mentre ha prodotto una crisi umanitaria senza pre- cedenti nella regione, che ha già fatto oltre diecimi- la morti, la maggior parte dei quali per carestia, e dove è in corso anche un’epidemia di colera.

MBZ si è era speso molto a Washington per accreditare MBS come il futuro dell’Arabia Saudita, e per rimarcare il pericolo rappresentato dall’Iran. Su entrambi gli aspetti, ha trovato terreno fertile e un sostegno forte da parte dell’Amministrazione Trump. Da questi punti condivisi, è nato il tour del maggio 2017, che ha visto Donald Trump visitare Arabia Saudita e Israele, danzando con le spade in mano insieme ai principali esponenti delle tribù arabe del Golfo e stringendo con Riad il più gran- de accordo di armi nella storia americana, per un valore di 110 miliardi di dollari in un colpo solo. In quell’occasione, il padre di MBS Salman, Al Sisi dell’Egitto e Donald Trump hanno inaugurato un centro anti-terrorismo multi forze, a ribadire la loro alleanza strategica, poco prima che il presidente americano annunciasse la ferma intenzione degli Stati Uniti di trasferire la propria ambasciata israeliana da Tel Aviv a Gerusalemme Est (cosa che poi è avvenuta u cialmente il 14 maggio 2018).

A quel vertice era presente anche l’emiro del Qatar, Tamim bin Hamad al Thani che, come MBS, è un uomo giovane, ambizioso e molto potente. Al Thani guida un paese che dipende dalle import zioni estere per quasi tutto fuorché il petrolio e gas, di cui è ricchissimo (al punto da potersi permettere una certa indipendenza politica anche da Riad). Al contrario di MBZ, l’emiro del Qatar non è mai stato un grande estimatore di MBS. Anzi, ne ha sempre temuto l’audacia e l’odio viscerale nei confronti dell’Iran, preferendogli da sempre il cugino Bin Nayef, già designato principe ereditario e ministro dell’Interno, poi esautorato per volere di re Salman. Questo, in pratica, ha reso Al Thani isolato nell’intero Golfo Persico, e nemico di MBS.

Il primo segno di attrito tra l’emiro e il nuovo principe ereditario risale al 23 maggio 2017, quando l’agenzia di stampa ufficiale del Qatar batté una dichiarazione inspiegabile da parte dell’Emiro: «L’Iran è un potere islamico che non può essere ignorato nella regione. Hamas è il rappresentante legittimo del popolo palestinese». Queste dichiarazioni, poi rivelatesi false e fabbricate da un hacker mai identificato, hanno sganciato una bomba nell’intero Golfo, perché approvare pubblicamente l’operato dell’Iran rappresenta un gesto inaudito e assai pericoloso per il mondo sunnita. In men che non si dica, infatti, è partito un pesante blocco commerciale contro il Qatar, che dura ancora oggi, e al quale il Paese sta riuscendo a far fronte grazie anzitutto all’Iran e ai ponti aerei della Turchia.

L’episodio è davvero molto signi cativo per capire le alleanze che si fanno e disfano intorno alla regione mediorientale in questi anni tribolati: da un lato, c’è il modello politico-religioso sunnita di Riad che segue la corrente tradizionalista del wahhabismo, cui sono intimamente legati anche Emirati Arabi Uniti, Bahrein, e in second’ordine anche l’Egitto, con gli Stati Uniti nel ruolo di pro- tettore; dall’altro, c’è il modello politico sunnita più

secolarizzato e meno oltranzista del Qatar che, pur facendo anch’esso parte della corrente wahhabita, tuttavia dimostra grande vicinanza anche alla corrente dei Fratelli Musulmani, a cominciare dal sostegno fornito da Doha ai Paesi coinvolti dalle Pri- mavere Arabe e, in particolare, alle fazioni islamiste che hanno rovesciato i regimi precedenti per imporre governi meno rigidi – a loro dire, improntati più al welfare e ai diritti civili – che si oppongono alla visione centralista e ortodossa di Riad (che, da parte sua, teme che il proliferare di simili idee nel Golfo possa mettere a rischio la tenuta del regno e persino la leadership religiosa delle città sacre di Mecca e Medina).

Paure non infondate, quelle di Riad e di MBS in particolare, visto che Doha ha trovato un forte sostegno nella Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan, che con l’emiro Al Thani condivide non soltanto una diversa interpretazione della religione e dello stato rispetto al modello saudita, ma anche basi militari (una in particolare nei pressi della capitale) e accordi economici rilevanti per un valore intorno al miliardo di dollari (dal gas al ferro e acciaio, compreso un fondo d’investimento condiviso). Senza contare che la Turchia è un player imprevedibile, di certo distante dalle logiche del Golfo e che nutre ambizioni geopolitiche indipendenti, aggressive e le cui alleanze si stringono e si disfano nell’arco di pochi anni, addirittura mesi, secondo le convenienze del momento. Molto vicini al Qa- tar sono anche il Kuwait e l’Oman, dove Doha ha rilevato la compagnia aerea nazionale e investito sulla costruzione di porti marittimi. Senza dimenticare il legame commerciale con l’Iran, con cui il Qatar condivide il più grande giacimento di gas naturale al mondo nelle acque del Golfo (quasi 10mila km quadrati complessivi, denominato North Dome / South Pars) oltre a numerosi accordi commerciali stretti con Cina e India.
Il che, secondo i suoi detrattori fa del Qatar la testa di ponte del regime degli Ayatollah iraniani per minare il potere centrale che l’Arabia Saudita riveste storicamente nella regione.

Dunque, il Medio Oriente oggi è in un equilibrio precario che offre ben poche certezze e nume- rose incognite. Il che porta a ritenere che, se il caso internazionale scaturito dalla morte misteriosa di Jamal Khashoggi dovesse comportare la caduta di MBS e del suo piano per rilanciare l’Arabia Saudita nel mondo denominato Vision 2030, ciò sarebbe in grado di minare la tenuta della stessa monarchia dei Saud e, di conseguenza, anche la sopravvivenza del Paese per come oggi lo conosciamo.

Anthony Roberts

articolo pubblicato su Babilon n°3