Il Dipartimento di Stato americano ha annunciato a fine novembre un significativo passo in avanti verso l’acquisto da parte dell’Arabia Saudita del sistema di difesa missilistico sviluppato dall’azienda statunitense Lockheed Martin. Washington e Riad hanno siglato i termini di un accordo da 15 miliardi di dollari che era nell’aria fin da dicembre 2016 e il cui contenuto era stato diffuso per la prima volta da CNBC.

La vendita dello scudo missilistico ai sauditi potrebbe quindi diventare realtà grazie alle pressioni statunitensi che avrebbero incluso anche una telefonata personale tra il presidente Donald Trump e il Re Salman, avvenuta a settembre 2018 e servita a chiudere l’affare entro la fine dell’anno. Il testo dell’accordo prevede che sauditi acquistino 44 lanciarazzi THAAD, Terminal High Altitude Area Defense, 360 missili e altro equipaggiamento militare per fronteggiare “gli obiettivi di sicurezza di lungo termine dell’Arabia Saudita nella regione del Golfo, tenendo conto della crescente minaccia posta dai missili balistici del regime iraniano e dai gruppi estremisti sostenuti dall’Iran”, ha spiegato un portavoce del Dipartimento di Stato Usa. Durante il mese di novembre 2018 l’industria della difesa degli Stati Uniti ha cercato di preservare i dettagli del grande accordo siglato tra Washington e Riad per la fornitura di 110 miliardi di dollari di armi, nonostante le critiche nate in seguito al coinvolgimento dell’Arabia Saudita nel disastro umanitario causato dalla guerra in Yemen e all’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi.

Il Congresso aveva approvato la vendita del sistema anti-missili ai sauditi nel corso del 2017, nello stesso anno le batterie THAAD erano state installate in Corea del Sud per far fronte alle minacce di Kim Jong-un, mossa malvista da Pechino che considera i radar americani un mezzo per penetrare nel suo territorio. Lockheed Martin Co è il primo appaltatore del progetto, l’altro è Raytheon Co, il cui obiettivo è arginare i danni causati dai missili balistici. Come suggeriscono le analisi, il sistema THAAD non costituisce una forma di protezione perfetta dagli attacchi, ma se viene integrato all’interno di un’architettura più ampia di difesa, aumenta le capacità di limitare i danni. Se l’attacco arriva da un missile a testata nucleare, le perdite che qualsiasi sistema di difesa prevede, possono avere ugualmente effetti catastrofici. Il dispiegamento dello scudo missilistico in Corea del Sud era servito a Seul non solo per mettersi maggiormente al sicuro da un eventuale attacco del Nord, ma anche per rendere più solida e certa l’alleanza con gli Stati Uniti. Con il nuovo accordo sulla vendita del sistema THAAD a Riad sono gli Usa che invece provano a tenere legati a sé i sauditi. Donald Trump ha chiarito di avere più a cuore l’interesse economico garantito dalla vendita di armi a Riad rispetto a qualsiasi valutazione di carattere etico e umanitario. La vendita di armi all’Arabia Saudita e la strategia militarista di Trump fanno chiaramente gli interessi dell’industria americana e vengono anche prima dell’esigenza di importare petrolio dal Medio Oriente. Mentre i rappresentanti dei governi di Germania, Danimarca e Finlandia hanno dichiarato di voler interrompere la vendita di armi a Riad, visto lo sconcerto internazionale suscitato dalla morte di Khashoggi il cui ordine secondo la CIA sarebbe partito dall’erede al trono saudita Mohammed bin Salman, è parso che l’appoggio degli Usa all’Arabia Saudita nella guerra in Yemen sarebbe più vasto di quanto previsto. Il 10 novembre Yahoo News aveva diffuso la notizia secondo cui all’inizio del 2018 il Pentagono avrebbe lanciato una nuova operazione classificata di supporto agli obiettivi militari sauditi in Yemen. Il documento che citava l’operazione dal nome in codice Yukon Journey sarebbe stato postato on line per sbaglio da un funzionario del Dipartimento della Difesa. La battaglia in seno al Congresso per fermare il sostegno degli Usa alla colazione saudita che combatte la guerra in Yemen si è arenata in commissione alla Camera, nonostante al Senato fosse stato eliminato l’ostacolo procedurale che avrebbe permesso di porre la questione ai voti.