Arabia saudita, il regno di MBS vacilla (a sua insaputa)

Il regno saudita in pugno al principe Mohammed bin Salman (MBS), quasi “reo confesso” dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, vacilla, ma i media, il presidente statunitense Trump e ora anche quello russo Putin gareggiano per tenerlo in piedi.

Per non farsi mancare nulla MBS si è appena comprato anche una quota di giornali inglesi dalla famiglia russa Lebedev e finanzia la Fondazione dell’ex premier Tony Blair, il vero “principe” delle fake news, uno degli autori della bufala sulle armi di distruzione di massa irachene nel 2003.

Così Mohammed bin Salman, affiancato dai consiglieri americani e britannici, ha lanciato un’offensiva mediatica con interviste a Cbs e Pbs per dire due cose: 1) Che lui è responsabile, senza saperlo però, dell’omicidio di Khashoggi. Interrogato su come può essere avvenuto a sua insaputa, il principe ha risposto alla Pbs: «Siamo 20 milioni di persone. Abbiamo 3 milioni di impiegati governativi» 2) Ha aggiunto che il mondo si deve mobilitare contro l’Iran altrimenti il petrolio si impenna e noi ci perdiamo un sacco di soldi. Nel frattempo ha fatto sparire Saud Al Qathani, il suo braccio destro che ha diretto il massacro di Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul.

MBS CONFERMA – a sua insaputa sia chiaro – di essere il mandante di un assassinio, come aveva già detto la Cia, ma insiste che lo dobbiamo difendere da Teheran perché se c’è una guerra viene divorato il 4% del Pil mondiale e il 30% dei rifornimenti globali di greggio.

Si tratta di un ricatto cui sono estremamente sensibili americani, inglesi, francesi e pure noi italiani che come gli altri vendiamo armi e compriamo petrolio a tutte le monarchie del Golfo.

Messo alle strette dall’impeachment, Donald Trump potrebbe individuare in una quarta guerra del Golfo un pericoloso diversivo ai suoi guai interni. È un copione che va drammaticamente in scena da quasi 40 anni anche con guerre per procura che fanno centinaia di migliaia di morti. Ed è esattamente quello che è avvenuto prima in Siria e poi in Yemen dal 2015.

L’ARABIA SAUDITA sotto il profilo bellico si sta rivelando uno dei maggiori fallimenti degli americani anche se finanzia da decenni la destabilizzazione Usa del Medio Oriente. Nonostante un apparato militare che inghiotte 70 miliardi di dollari l’anno – cinque volte più del rivale Iran – il principe ha appena subito due scacchi vergognosi: un attentato devastante agli impianti petroliferi e la resa – se sarà confermata – di duemila soldati sauditi agli Houthi. Visto che da ministro della Difesa sta perdendo la guerra in Yemen, il principe avrebbe dovuto essere esautorato ma lui ha sequestrato la famiglia reale e i ricchi sauditi usando i loro beni per finanziare la guerra e partecipare al collocamento in Borsa di Aramco, la società petrolifera di stato.

C’è del marcio nel regno più oscurantista del mondo: l’altro giorno hanno fatto fuori il generale Abdulaziz al-Fagham, capo della guardia di Re Salman, si dice per «motivi personali» che però qui coincidono sempre con gli interessi dei Saud. E come se non bastasse è appena andata in fumo la stazione della Tav di Gedda, non si sa ancora se per un incidente o un attentato.

NEL BAILAMME delle fake news dilaganti si è accettata anche la versione che gli attacchi agli impianti petroliferi sauditi, rivendicati dai ribelli Houthi e per i quali si incolpano gli iraniani, sia avvenuta con droni lanciati da mille chilometri di distanza. Ma è più logico che siano avvenuti dentro al territorio saudita e con decisive complicità locali. Ma certamente l’Iran non scopre le sue carte nel Regno.

Certo per sostenere il maggiore acquirente di armi Usa e un principe incapace, bisogna trovare qualcuno abile a tenere a galla autocrati e dittatori. Ed ecco che tra un paio di settimane arriva in visita a Riad Vladimir Putin, il vero esperto, quello che con gli iraniani ha mantenuto al potere Assad.

PUTIN è pieno di buone intenzioni e si è già offerto di vendere ai sauditi i sistemi antimissile S-400. Se riuscisse a concludere l’affare sarebbe un capolavoro: è già fornitore della Turchia, lo storico, e sempre meno convinto, bastione della Nato, e potrebbe diventarlo anche del Regno wahabita legato mani e piedi a Washington dal 1945, da quando Roosevelt e re Ibn Saud si incontrarono dopo Yalta sull’incrociatore Quincy. Adesso ci vuole una Yalta del Golfo e tutti i bravi ragazzi sono al lavoro.

Pubblicato su Il Manifesto