ATTENTATORI SUICIDI NELLA VIA VERSO IL “MARTIRIO”: APPROCCI FENOMENOLOGICI TRA INDIVIDUALITA’ PSICOLOGICA E AMBIENTALE

Nell’analisi delle minacce di natura non convenzionale veicolate mediante l’impiego di esplodenti, materiali energetici e sostanze dual use, è d’obbligo considerare la figura del Suicide bomber alla stregua di qualsivoglia tipologia di I.E.D. (Improvised Explosive Device ovvero Ordigno Esplosivo Improvvisato); infatti, se dal punto di vista tattico esso presenta marcate differenze con la maggior parte degli I.E.D.s, dal punto di vista tecnico il Suicide bomber non rappresenta altro che una cosiddetta catena incendiva di elementi più o meno standard occultata all’interno di “concealments” quali ad esempio l’abbigliamento, uno valigia, un mezzo di trasporto o altro ancora condiviso dalla persona che lo veicola.

Il Suicide bomber rappresenta altresì una vera e propria “bomba intelligente” in virtù della possibilità di variare più o meno autonomamente in itinere il disegno tattico dell’attacco; inoltre, l’attività di prevenzione in termini di detection di un attentatore suicida è messa a dura prova, non esistendo ad oggi protocolli e procedure validate, e quindi realmente funzionali, ad assistere in modo efficace le attività di profiling.

Tutto ciò ha generato una notevole confusione nonché un profondo senso di inadeguatezza negli operatori di sicurezza sia privati che alle dipendenze della P.A., i quali si trovano quotidianamente a doversi misurare non con l’imponderabile ma, certamente, con un fenomeno connotato da un gran numero di variabili a discapito di poche, pochissime costanti.

Come a buon titolo viene di frequente riportato dall’esperto Dott. Raffaele Secchi, la domanda che spesso in molti ci dovremmo porre, e che in chiave Suicide Bombing viene di certo enfatizzata è: “Chi è il Nemico?”; ebbene, con particolare riferimento al fenomeno degli attentatori suicidi di matrice islamista, la presenza di così poche informazioni certe pesa inequivocabilmente sulla nostra capacità di generare una risposta univoca e precisa.

Ad oggi sappiamo ancora così poco dei profili della personalità dei soggetti che abbracciano l’estremismo religioso, ancor meno sulle caratteristiche psicologiche proprie di quegli individui che, dopo aver raggiunto un livello di indottrinamento elevato, arrivano a considerare la propria vita degna di essere sacrificata per la causa religiosa.

La guerra portata avanti dai governi nei confronti delle organizzazioni terroristiche ed insorgenti di maggior rilievo, come ad esempio Al Qaeda ed IS, hanno condotto, mediante il taglio dei vertici di queste strutture fortemente gerarchizzate, ad una proliferazione puntiforme e distribuita a livello globale, inoculando nei soggetti aderenti all’ideologia il concetto che anche il singolo può dare un contributo alla causa spesso addirittura immolando la propria vita.

Lo studio del concetto di martirio e la strada psicologica che porta al gesto estremo, con l’assenza di vertici fortemente carismatici, si è reso ancor più complesso, vario, frastagliato ed impossibile da monitorare e prevedere; gli attentati posti in essere nell’ultimo ventennio in Europa, nei quali città come Londra, Parigi, Madrid e tante altre hanno pagato con un ingente numero di vittime, hanno reso vani gli studi portati avanti in merito agli schemi tattici, strategici ed ideologici sino a quel momento osservati.

Le radici motivazionali e i percorsi radicalizzanti che vengono posti in essere dal singolo individuo o dalla cellula strutturata, sono la risultante di processi psicologici multifattoriali e diversificati, già presenti nella sfera personale del soggetto, ma tenuti latenti.

Da questa premessa è facile intuire la complessità del fenomeno, la quale apre la strada ad una moltitudine di aree tematiche multidisciplinari che si ramificano in varie direzioni, difficoltose da catalogare, prevenire e studiare; allo stato attuale nessuna teoria possiede maggiori garanzie o credenziali rispetto ad un’altra, ed inoltre il grado di difficoltà aumenta per la mancanza di dati statistici e psicologici di riferimento, sottolineando l’errore più comune che le analisi incomplete possano commettere, ossia l’appoggiare una sola strada disciplinare.

Cercare la risposta a tali quesiti, ispezionando esclusivamente la sfera religiosa, risulta essere riduttivo, incompleto e superficiale; allo stesso tempo, vedere nel trascorso di un aspirante ”Shahid” la tassativa esperienza traumatica nel corso della sua vita, non corrisponde ad un approccio veritiero e concreto.

Vari studiosi della materia, attraverso i dati raccolti, hanno avvalorato in modo più favorevole una teoria piuttosto di un’altra svolgendo ricerche con approcci di carattere generale (fenomeni terroristici su scala globale), con approfondimenti specifici per aree geografiche designate (Palestina, Libia, Nigeria, ecc.) o attraverso il monitoraggio delle peculiarità del gruppo terroristico che rivendicava la paternità dell’attentato (Hamas, Al Qaeda, ISIS, Boko Haram, ecc.).

Tra le varie teorie perseguite è interessante l’approccio dello psichiatra norvegese Sverre Varvin, il quale nel suo elaborato dal titolo “Terrorismo e vittimizzazione: dinamiche individuali e del grande gruppo”, ha cercato di comprendere i processi mentali del grande gruppo coinvolti nel fenomeno del terrorismo.

Nell’elaborato Varvin ha indirizzato la sua ricerca soprattutto nell’osservare l’esperienza della vergogna e della ferita narcisistica, individuandole come elementi base dotati di una forte connotazione emotiva ed in grado di spingere, a chi ne è afflitto, ad esercitare qualche forma di rivalsa nella consapevolezza che, qualora adeguatamente indirizzato, un soggetto possa trovare nel terrorismo e negli attacchi di tipo suicida la cosiddetta giusta strada.

Quando si è esposti all’umiliazione in un contesto di violenza sociale, si tenderà infatti a vivere la ferita narcisistica come l’elemento basilare che spinge a forme di natura terroristica, in quanto la vendetta viene legittimata dal bisogno di restituire identità e dignità al gruppo.

Un altro aspetto sottolineato dallo studioso Varvin è quello in cui la continua umiliazione inferta ad una comunità favorisca forme di regressione sia dell’individuo che dell’intero gruppo, rimarcando che, al fine di far sviluppare una vera e propria mentalità “terroristica”, è necessario che all’interno del gruppo emerga una leadership dal carattere fortemente ideologico; la giustificazione dell’esercizio di forme di violenza estrema, come quello dell’attacco suicida, trae spesso sostegno dalla memoria storica, veritiera o presunta che sia, di sconfitte ed umiliazioni subite nel passato dal proprio gruppo.

Non solo Varvin, ma anche altri autori, convengono sulla teoria relativa al processo di deumanizzazione affrontato dal soggetto che guarda al martirio come unica via di fuga; il rischio a cui vanno incontro soggetti esposti ad una deumanizzazione nell’arco della loro esistenza, è quello di essere permeati da un senso iniziale di aggressività, seguito successivamente da quello di distruttività, il quale avviene attraverso un’operazione interiore che procede silenziosamente e in modo pianificato, prosperando nell’assenza di emozioni, cancellando i sentimenti e abbracciando una psicologia “anti – relazionale”.

Mentre il senso di aggressività si esplicita attraverso sentimenti come la rabbia e la sofferenza interiore, la distruttività si trova già ad un livello successivo, nel quale è avvenuto il raggiungimento di uno stato mentale specifico, luogo nel quale sono stati aboliti sentimenti ed emozioni; l’attentato suicida è un atto totalmente distruttivo, non solo a livello oggettivo per ciò che crea, ma anche da un punto di vista interiore poiché colpisce la radice dei legami umani, punto ultimo al quale si può arrivare solo dopo aver abolito ogni sentimento ed emozione verso il prossimo.

Infatti, quando nel corso di un attentato suicida ricompaiono le emozioni, come la pietà per le eventuali vittime e per il sé morente, si blocca l’azione distruttiva, anche se questo purtroppo avviene in rarissimi casi; solo raramente infatti, pensieri e ricordi improvvisi riescono a riattivare il circuito delle emozioni interrompendo la spirale del trionfo distruttivo.

Ciò avviene perché, quando la deumanizzazione (fenomeno più presente in ambito europeo) o il trauma (maggiormente condiviso nei teatri di guerra) porta ad una morte emotiva irreversibile e quando la rabbia distruttiva diventa l’unica ragione per l’azione appiattendo ogni emozione, diviene molto più difficile disinnescare il potenziale distruttivo; tutto ciò avviene in quanto, in quei casi, è impossibile ritrovare il senso dell’umano e della compassione, soprattutto quando l’ideologia ha preso le distanze da tutto e la convinzione di agire in nome di un Dio superiore è fermamente radicata.

Il numero di adepti che si immolano per la causa genera una sorta di contagio e desiderio di imitazione in chi vorrebbe dimostrare fedeltà estrema alla fede religiosa; i candidati al martirio vivono nella convinzione che, “dall’altra parte”, i loro fratelli morti che hanno avuto il coraggio di fare il grande passo li attendano.

Da un punto di vista antropologico, si può dire che da una parte si trovino i fedeli viventi che costituiscono la “comunità di testimoni”, ossia la memoria storica della morte gloriosa dei martiri; dall’altra, i morti e i martiri formano una “comunità gloriosa” costituita da eletti, la quale li attende per accoglierli e li incoraggia ancor di più nel fare il grande passo superando la paura della morte.

Analizzando il fenomeno da più punti di vista, sorge l’idea di esser davanti alle due facce di una stessa medaglia, in quanto le varie teorie non sono rigidamente incardinate all’interno di comparti tra loro indipendenti, ma sono divise da una sottilissima linea di demarcazione.

La domanda espressa da molti è “Cosa può offrire concretamente la religione a chi versa in una profonda crisi traumatica?”; a chi si sente disorientato, confuso, angosciato e senza patria, l’ingresso in una comunità religiosa rappresenta il ritrovamento della possibilità di ricostruire la propria identità e le proprie origini all’interno di un gruppo unito e solido.

La ricerca investigativa e psicologica relativamente al fenomeno degli attacchi suicidi, storicamente sempre presenti in varie epoche ma innovativi nella chiave in cui oggi si manifestano, risulta attualmente molto frammentaria, contorta e incompleta; le condizioni in cui avvengono gli attentati e la natura clandestina degli attori coinvolti, siano essi singoli soggetti, piccole cellule o gli stessi gruppi armati che fungono da reclutatori di “martiri”, lasciano spesso ignota, poco chiara o difficilmente ricostruibile la loro identità.

Poter svolgere degli interrogatori “psicologici” che consentano di approfondire le motivazioni del soggetto che percorre la strada del Suicide Bomber, delinearne un profilo, comprenderne le esperienze di vita, gli eventuali traumi, i percorsi radicalizzanti, le strutture psicologiche e le predisposizioni caratteriali, sono risultati vani o scarsamente attendibili.

L’impossibilità di interagire con gli attentatori e la difficoltà di incontrare i soggetti arrestati prima di immolarsi per la causa, creano notevoli problematiche alla comprensione delle motivazioni, obbligando i servizi di sicurezza ad affidarsi all’esame dei loro testamenti, intervistare parenti e conoscenti o tentare di acquisire informazioni riguardanti i percorsi di studio svolti.

Inutile dire che questa tipologia di informazioni sia poco attendibile, spesso parzialmente veritiera e comunque incongrua per permettere di aver sufficienti dati per poter strutturare un profilo psicologico e comportamentale compiuto.

Una differenza basilare tra il suicidio ordinario e il suicidio ai fini terroristici, è connessa alle circostanze specifiche in cui quest’ultimo è realizzato; data questa differenza, alcune caratteristiche psicologiche associate alla decisione di commettere il suicidio risultano essere particolarmente importanti.

Ad esempio, una personalità dipendente non è normalmente considerata un alto fattore di rischio per il suicidio ordinario; nel verificarsi di un suicidio terroristico invece, nella circostanza in cui l’azione dell’aspirante “martire” è stata elogiata dalla comunità e il candidato sia stato radicalizzato e successivamente reclutato da una figura autorevole, questo tipo di personalità diviene un fattore cruciale nel determinare la vulnerabilità della persona.

Il Prof. Ariel Merari, docente presso l’Università di Tel Aviv e profondo conoscitore del fenomeno, pubblicò insieme al suo Staff uno studio riguardante un’indagine circa un gruppo di 15 palestinesi, tutti maschi e con un’età media di 19 anni, i quali vennero arrestati prima di compiere un attentato suicida, e su un gruppo di controllo di 12 terroristi non suicidi, tutti maschi e con la medesima età media.

Avvalendosi di interviste ed esami clinici, i ricercatori evidenziarono che, nonostante l’assenza di tratti psicotici, gli attentatori suicidi manifestavano una serie di caratteristiche psicologiche rilevanti, delineando due modelli di personalità; il primo, attribuito al 60% degli attentatori (9 casi rispetto ai 2 che costituiscono il 17% del gruppo di controllo), possedeva un modello di personalità dipendente-evitante.

I soggetti che presentano questa personalità sono più vulnerabili all’influenza di altre persone, maggiormente desiderosi di essere apprezzati e meno propensi a rifiutare richieste provenienti da individui dotati di autorità e carisma; un altro aspetto decisivo di questo modello è la costante presenza di una percezione di inadeguatezza, che predispone chi ne è in possesso, nel vedere nella missione suicida una via per ricevere considerazione sociale grazie al prestigio attribuito ai martiri e al senso di potere procurato dall’azione che devono compiere.

L’altro modello, comune al 27% dei casi suicidi (4 soggetti rispetto agli 8 che costituiscono il 67% del gruppo di controllo), è indicato come personalità impulsiva-instabile; secondo i ricercatori, i militanti con questa personalità tendono ad essere impulsivi, volubili ed autodistruttivi.

Ci si rende conto non solo della facilità con cui cadano preda dell’impulso ad arruolarsi come attentatori suicidi, ma anche dell’alta frequenza con cui, a causa della loro instabilità psichica, cambino decisione fino al punto di abbandonare la missione.

Nella parte restante degli attentatori (2 casi) non veniva rilevato alcun modello distintivo di personalità; dall’altro lato, il 40% degli attentatori (6 casi: 4 con personalità dipendente-evitante, 1 con personalità impulsiva-instabile ed 1 senza alcun modello distintivo di personalità) presentava tendenze suicide (totalmente assenti nel gruppo di controllo).

Le interviste e le analisi cliniche di questi soggetti rivelano un dato altamente significativo: la ricerca della morte motivata da sofferenze psicologiche non presenta nessi con la causa politica, e a differenza delle posizioni più diffuse in letteratura, i dati convergono nel delineare un tipo predominante di attentatore suicida.

Nella maggioranza dei casi, gli aspiranti suicidi erano timorosi, socialmente marginali e seguaci piuttosto che leaders; molti erano solitari ed esclusi, con una storia di fallimenti a scuola e nutrivano il sentimento di aver deluso i genitori.

Il gruppo, nel suo complesso, presenta caratteristiche della personalità marcatamente distinte dal gruppo di controllo; secondo l’autore, i risultati di quest’indagine mostrano più precisamente che i fattori di rischio fondamentali delle missioni suicide sono generalmente diversi da quelli dei suicidi ordinari.

La maggioranza degli attentatori suicidi analizzati nel campione non ha intrapreso la propria missione per un desiderio di morire e per porre fine alla proprie sofferenze interiori, ma a causa di specifiche caratteristiche della propria personalità le quali rendono tali individui più sensibili ad un’influenza esterna; in realtà, i profili sociali degli aspiranti suicidi sono molteplici e possono cambiare profondamente nel tempo, anche a causa delle necessità di reinventarsi ed adattarsi da parte delle organizzazioni terroristiche secondo il “principio della sostituzione”, il quale enfatizza in particolar modo la capacità di adeguamento.

In alcuni casi la principale motivazione che spinge un individuo a diventare un attentatore suicida è il fervore e la lealtà ad una causa politica, tra le quali si può citare ad esempio la liberazione della propria patria da un’occupazione militare come nei contesti Iracheno ed Afgano.

Le inclinazioni affettive, come reazioni a determinati stimoli dettate da impulsi profondi, possono spesso assumere un ruolo di primo piano; in particolare, spesso segnalati dagli studiosi, si possono citare i sentimenti di vendetta, umiliazione, frustrazione e vergogna.

La multifattorialità motivazionale che spinge un soggetto a prestare la propria vita per una causa, possa questa essere di natura religiosa, politica o sociale, abbracciando il concetto “dell’uccidersi per uccidere” resta, per la cultura occidentale, un aspetto estremamente incomprensibile, aberrante e sconvolgente, solitamente associato in modo erroneo ad una psicopatologia del soggetto operante.

Molti studiosi hanno indagato le condizioni culturali e religiose degli attacchi suicidi sottolineando come esista una “cultura del martirio”, costituita da una rete di presunti elementi del passato (codici d’onore, riti e miti) la quale spesso viene sfruttata come “parafulmine” per altri presupposti che vengono rielaborati e riadattati all’attuale contesto sociale, fornendo modelli per l’emulazione e l’ispirazione, modernizzando ed evolvendo le tecniche.

Un aspetto interessante, oggetto di studio di un gruppo di ricercatori sul fenomeno Suicide Bombing, è stato quello di analizzare i dati relativi ai livelli d’istruzione posseduti dagli attentatori, con la finalità di ricavarne informazioni utili ai fini psicologici e aumentare l’attendibilità delle attività di profiling.

Lo studio riguardava attentati più datati, dei quali però si possedevano maggiori dettagli ed elementi certi; l’indagine era focalizzata su ben 404 militanti di 30 nazionalità distinte, appartenenti a varie organizzazioni jihadiste, inclusi terroristi coinvolti in diversi attentati suicidi tra cui quello del 7 agosto 1998 alle ambasciate americane in Nigeria e Tanzania e dell’11/9 (comprendendo non solo gli attentatori ma anche i militanti non suicidi).

Tra le scoperte più significative è emerso che, dei 284 individui di cui è noto il titolo di studio, il 69% ha frequentato l’università o ha una laurea; dei 178 casi di cui è nota la disciplina, al primo posto figura il settore dell’Ingegneria (78, pari al 44%) e al secondo il percorso di Studi islamici (34, pari al 19%).

Nel campione considerato, gli ingegneri risultano nettamente sovra-rappresentati in confronto ai jihadisti che hanno frequentato o hanno completato gli studi in altre discipline; il quesito che gli studiosi si sono posti è quindi stato: per quale ragione la radicalizzazione è stata più probabile per gli ingegneri rispetto a coloro i quali provenivano da altri percorsi di studio?

La risposta che si sono dati è stata che gli studi di ingegneria potrebbero essere relativamente più interessanti per gli individui che cercano una “chiusura” cognitiva a risposte nette in contrapposizione a discipline più aperte; infatti, l’ingegneria è un settore nel quale individui con avversione per l’ambiguità possono sentirsi maggiormente a proprio agio.

Dall’altro lato, la radicalizzazione degli ingegneri è favorita dalla frustrazione di aspettative professionali ed economiche che in quella categoria, più che in altre, si sono generate negli ultimi decenni a livello globale e con particolare virulenza nei paesi arabi.

Non è parimenti dimostrato che militanti ed attentatori siano persone normalmente prive di istruzione; i dati disponibili infatti confutano il luogo comune secondo cui i Suicide bombers siano necessariamente accomunati dallo spettro della povertà.

Il database del Prof. Ariel Merari rivela che dei 49 attentatori (tutti palestinesi) di cui è noto lo status economico con buona confidenza, il 61% proviene dalla classe media, nonché molti degli stessi attentatori dell’11/9 (in maggioranza sauditi), per esempio, appartenevano a famiglie dello stesso livello; la scarsità dei dati e i pochi casi studio di cui si hanno informazioni certe ad oggi, non bastano ovviamente, come anticipato in apertura di elaborato, a creare un modello validato e quindi efficacemente utile alle attività di profiling.

BIBLIOGRAFIA

D. Tosini, Martiri che uccidono, 2012

A. Merari, Driven to Death – Psychological and Social Aspects of Suicide Terrorism, 2010

S. Varvin, Terrorismo e vittimizzazione: dinamiche individuali e del grande gruppo, 2003

F. Khosrokhavar, I nuovi martiri di Allah, 2003 M. Juergensmeyer, Terror in the mind of God: the global rise of religious violence, 2000

BIOGRAFIA degli AUTORI

Davide Martinez, laureato in Scienze e Tecniche Psicologiche è dipendente del Ministero dell’Interno. Da anni svolge studi approfonditi ed analisi sugli aspetti psicologici correlati al fenomeno del terrorismo e della radicalizzazione.

Stefano Scaini opera professionalmente nel settore dei materiali energetici dal 1993 fornendo servizi, consulenze e contributi didattici nei settori della sicurezza, delle tecnologie e delle applicazioni sia civili che militari dei materiali esplodenti, con particolare riferimento agli aspetti “dual use” e a quanto afferente e correlato ai settori Sicurezza e Protezione di strutture ed infrastrutture critiche. Coautore dei volumi dal titolo “Calcoli di dinamica dell’esplosione” ed “Esplosivi e security”, Autore di numerose e riconosciute pubblicazioni in campo nazionale ed internazionale, nonché collaboratore di Networks e Stampa specializzata, è Consulente e Formatore presso Safety & Security managements di Società nazionali e Multinazionali, Enti, Associazioni ed Istituti di ricerca e formazione accreditati. Docente presso NATO JCBRN COE, MAR-SEC COE, UN, Eurojust, la Missione Diplomatica degli Stati Uniti d’America, le Forze Armate e di Polizia Italiane ed Atenei quali Franklin University Switzerland, Politecnico di Torino, Università degli Studi di Bologna “Alma Mater”, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Università degli Studi di Milano-Bicocca, Università degli Studi della Tuscia e Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Consulente a disposizione della Presidenza del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, è stato segnalato tra le nominations dei “World Demolition Training Awards 2010” per la didattica specialistica erogata ai Nuclei Artificieri antisabotaggio e Polaria della Polizia di Stato Italiana.