Un'immagine del parlamento inglese

Dopo quasi due anni di logoranti negoziati, la sera di giovedì 14 marzo il Parlamento di Londra ha preso atto che l’uscita dall’Ue non sarà possibile entro la data prevista del 29 marzo. L’assemblea ha votato a larga maggioranza a favore dell’estensione della scadenza del termine fissato per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Il governo britannico chiederà all’Ue di prorogare l’addio al 30 giugno, a condizione che venga raggiunto un accordo entro la data del 20 marzo. La concessione di una proroga dall’Ue appare piuttosto scontata, ma per essere approvata è necessario che la richiesta venga accolta dal Consiglio europeo, previsto per il 21 marzo. Perché si realizzi l’estensione dell’Articolo 50, che stabilisce l’uscita il 29 marzo, gli Stati membri del Consiglio dell’Unione Europea dovranno votare all’unanimità. Alcuni deputati conservatori euroscettici e il DUP, il partito della destra radicale irlandese, hanno votato contro la mozione passata alla Camera dei Comuni che chiedeva appunto il rinvio di Brexit dai 3 ai 9 mesi.

La proroga del termine oltre il quale Londra sarà automaticamente fuori dall’Ue era la strada preferita da Bruxelles perché sposta il problema a dopo le elezioni europee del 23-26 maggio. Donald Tusk si era però detto a favore di una estensione più lunga e alcune fonti ufficiali Ue avevano parlato di un rinvio di almeno un anno. Se la premier Theresa May non dovesse riuscire nell’ardua impresa di arrivare a un accordo prima del Consiglio della settimana prossima, Londra si troverebbe nella posizione di chiedere l’estensione più lunga, quella di 9 mesi. In tal caso, la semplice richiesta non sarebbe abbastanza e il governo britannico sarebbe tenuto a fornire motivazioni “valide” che possano giustificare il rinvio. Se tutto andrà per il verso sbagliato, verrebbero indette nuove elezioni e si verrebbe a configurare l’ipotesi del secondo referendum, ipotesi fino a questo momento rimasta nel campo della mera speculazione. L’emendamento sul secondo referendum è stato, però, duramente respinto dal Parlamento a causa soprattutto dell’astensione dei laburisti voluta da Corbyn.

Nel tempo che resta il governo britannico proverà a ottenere l’approvazione del piano di uscita negoziato con Bruxelles alla fine del 2018. L’intenzione chiara di May è cercare di sottoporre il Parlamento a un terzo voto sul suo accordo e convincere i conservatori più intransigenti ad accettare il piano a meno di non veder sfumare Brexit o di ammorbidirla. Nei prossimi giorni la missione del capo del governo sarà infatti provare a tirare per la giacca i ribelli del suo stesso partito, che sono numerosi. Raggiungere in pochi giorni un accordo su un’uscita concordata tra Ue e Londra appare molto difficile perché il piano su cui punta May è stato respinto per due volte dal Parlamento e poco o nulla potrebbe cambiare nei termini già discussi in particolare riguardo nodo del backstop. Proprio su questo punto May l’11 marzo aveva cercato di avere da Juncker nuove garanzie, giudicate però non abbastanza sufficienti dai conservatori perché nei fatti c’era stata solo un’intesa sull’impegno reciproco a trovare soluzioni alternative oltre il 2021.

Molti conservatori hanno abbandonato May, convinta a proseguire nella sua strategia senza sconti “o il mio piano per Brexit o la folle uscita senza accordo”. Tale strategia è costata alla premier le dimissioni di alcuni suoi ministri che, dopo aver votato contro di lei, hanno lasciato le poltrone, portando a galla ancora una volta le profonde divisioni interne al partito su Brexit. I conservatori euroscettici ribelli e gli unionisti nordirlandesi potrebbero però cedere alle lusinghe di May e accettare il piano doloroso pur di scongiurare nuove elezioni o un secondo referendum su Brexit, che potrebbe segnare la fine del divorzio da Bruxelles. I laburisti, capitanati da Corbyn, proveranno invece a spingere sul piano che salva l’unione doganale con Bruxelles.

L’estensione breve della scadenza apre tra le ipotesi anche alla possibilità di un nuovo negoziato su un piano sulle relazioni tra Londra e Bruxelles basate sul modello norvegese e implica la possibilità di un voto di sfiducia a May. Se ci fosse la sfiducia, si dovrebbe pensare a un nuovo premier da far insediare entro 15 giorni, in caso contrario i cittadini britannici sarebbero chiamati alle urne. L’abbandono delle scene da parte della dancing queen sembra però poco probabile date le norme interne del partito che impediscono di metterne in discussione la leadership fino alla fine dell’anno.

L’estensione breve dell’uscita di Londra non risolve ancora una volta il problema del no deal, ovvero l’uscita disordinata di Londra dall’Unione Europea che secondo molti porterà a conseguenze catastrofiche. La probabilità del divorzio scompaginato dall’Unione resta ancora in piedi nonostante Westminster a sorpresa abbia votato nella serata del 13 marzo un emendamento che chiedeva al governo di escludere l’ipotesi del no deal. Il Parlamento britannico ha dato mandato al capo del governo di non procedere in nessun caso verso il mancato accordo con l’Ue, ma è stato anche un pronunciamento non vincolante perché lo scenario dell’addio caotico di Londra potrebbe ugualmente verificarsi. Le uniche vie certe per scongiurare il baratro sono ancora soltanto due: o trovare un accordo o revocare l’attivazione dell’Articolo 50.