È da aprile che nel paese si susseguono proteste e scontri civili tanto da far pensare i più a una vera e propria guerra civile. Invero le chiavi di lettura della situazione nicaraguense sono multiple e dipendono dalla prospettiva d’analisi. Resta il fatto che da aprile ad oggi, tra manifestanti e poliziotti le vittime superano le 300 unità, i feriti sono oltre 2000 e le detenzioni superano quota 300. Questo è quanto è inconfutabile a prescindere dal punto d’analisi dal quale si parte.
Le diversità dei punti di vista riguardano il movente delle proteste e le strategie in atto nel prosegue di quest’escalation di violenza. Variano anche gli attori attivi e passivi in questo valzer accusatorio in cui tutti contribuiscono in concreto alla destabilizzazione del piccolo paese centroamericano.
Partiamo dal governo che in aprile aveva inteso apportare una riforma al sistema pensionistico del paese andando ad aumentare la trattenuta sul salario in favore di una sostenibilità del sistema pensionistico a sua volta decurtato di un 5% del proprio valore sempre per il medesimo fine di “sostenibilità del sistema”. Tale decisione ha portato in piazza la protesta studentesca che nell’immediato ha ottenuto la revoca della stessa riforma dopo pochi giorni. Ma ciò non è valso a placare lo scontro di piazza, ma anzi ha visto un aumento del disappunto nei confronti del governo. Dal canto suo il presidente Daniel Ortega e il suo vice (e moglie) Rosario Murillo hanno prima reagito con un’aspra dialettica poco accomodante e conciliante e successivamente con una concreta azione volta a contrastare le azioni di piazza mediante l’intervento delle forze dell’ordine e infine con l’oscuramento dei media nazionali che parlavano delle rivolte. Violenza che non ha fatto altro che generare altra violenza sino ad oggi e con una base di protesta, ben più ampia del popolo studentesco, ma che abbraccia diversi settori sociali. La visione governativa è quella di un atto ostile alla legittimità del governo fomentata dall’esterno (Washington). Capiamone ore le motivazioni per cui possano essere mosse tali accuse. Indubbiamente l’antiamericanismo e l’antimperialismo sono una sfaccettatura culturale molto presente in Sud America che trova spesso una giustificazione nel protrarsi di una coloniale dottrina Monroe da parte di Washington. Ogni presidente ha arricchito tale dottrina di inizio ‘800 con un proprio corollario ovvero con una propria visione strategica e operativa per il mantenimento di un’egemonia geopolitica sulla regione. Oggi ci troviamo in un momento in cui va a delinearsi proprio il Corollario Trump del quale si potrà avere un quadro migliore solo a seguito delle elezioni in Brasile (ottobre 2018). Per ora l’atteggiamento statunitense è più attendista che altro e si limita ad una chiusura commerciale e a un forte ridimensionamento dei flussi migratori in entrata. Certamente si possono fare congetture basate sull’antagonismo storico tra Washington e forme governative di stampo socialista e/o comunista, si può guardare da questo punto di vista la situazione venezuelana e per analogia rivolgere la propria attenzione al Nicaragua. Si può anche pensare al progetto del Canale Transoceanico nicaraguense (con investimenti cinesi) quale infrastruttura poco desiderata dalla Casa Bianca per via della competizione che si verrebbe a creare con il Canale Transoceanico panamense (con investimenti statunitensi). Ma tutto ciò non trova oggi un riscontro certo e comprovato e quindi resta pura congettura e null’altro. Tuttavia resta il fatto che è da queste congetture che Ortega attinge per difendersi agli occhi dell’opinione pubblica internazionale in questo momento di instabilità interna. Ortega e consorte putano a difendere la legittimità del proprio governo giunto al terzo mandato consecutivo e ad indicare i manifestanti come violenti e sostenuti dall’esterno.
Gli studenti scesi in piazza invece la vedono diversamente. Innanzi tutto salta all’occhio proprio il soggetto protagonista delle prime contestazioni d’aprile ovvero gli studenti non coinvolti direttamente dalla riforma salariale del governo. E allora? Perché sono loro a contestare il governo? I più affermano che le nuove generazioni hanno semplicemente approfittato del singolo episodio per far esplodere il proprio disappunto nei confronti di un governo accusato di aver tramutato il sistema democratico in regime autoritario. Le nuove generazioni non si riconoscono nel Governo di Ortega e nel Sandinismo che lo stesso dice di rappresentare. Lamentano il monopolio politico di Ortega e della moglie che di fatto finiscono con l’essere l’unica forza a competere nelle elezioni all’interno del paese. L’opposizione si astiene dal competere alle presidenziali così come l’affluenza alle urne è sempre più in calo. Segni che non possono non lasciar intendere che la struttura politica e istituzionale di un paese sia logora. Questa voglia di contestare spiega come gli stessi manifestanti non sono scomparsi, ma anzi sono aumentati assorbendo altre fasce sociali della popolazione nicaraguense, anche successivamente alla revoca della riforma salariale. Oggi sono gli stessi manifestanti a indicare il governo quale mandante di una repressione sanguinaria ad opera della polizia di stato e di gruppi paramilitari.
A mobilitarsi sono anche gruppi politici clandestini di opposizione al sandinismo di Ortega. Tra questi troviamo sia rappresentanze di estrema destra (ad esempio Frente Norte 3-80) che raggruppamenti di sandinisti (ad esempio il Frente Revolucionario Obrero Campecino) che da dallo stesso Ortega hanno ritenuto opportuno prendere le distanze perché non riconoscono nello stesso leader l’ideologia storica del movimento rivoluzionario a cui fanno parte. Tuttavia ruolo di rilievo è quello della Chiesa con cardinali e vescovi in prima linea nel tentativo di mediare pacificamente tra governo e opposizione (manifestanti). La Chiesa come per altre occasioni quindi si ritaglia un ruolo da protagonista nelle trattative per la pace sociale, ma di fatto diventa un diffusore mediatico internazionale sui fatti del Nicaragua. Chiesa che proprio nel 2007 si schierava accanto ad Ortega in una sorta di sodalizio politico per un governo stabile e cattolico. Una partnership oggi rovinata dove la curia lamenta una persecuzione pericolosa, ma allo stesso tempo incapace di ridimensionare la fermezza della Santa Sede nel cercare una via per il dialogo. Resta il fatto però che da Managua sono vescovi e cardinali a far filtrare accuse di soprusi da parte delle forze governative.
Ma se ragioniamo al netto degli interessi (congetture) precedentemente elencati di Washington su una possibile fine del Governo di Ortega, perché il popolo dovrebbe rinnegare quanto solo nel 2016 è stato riconfermato con oltre il 70% dei voti? La risposta è proprio nel sistema politico costruito negli anni da Ortega e da sua moglie ovvero un sistema in cui l’unico e solo capace di concorrere alle elezioni è lo stesso Ortega. In un contesto in cui le opposizioni vengono estromesse, è ovvio assistere ad un netto calo dell’affluenza alle urne e ad un netto distacco della popolazione dalla vita politica attiva. Risulta quindi plausibile che invero il governo è poco rappresentativo del popolo. Dal canto suo, il governo, dati alla mano, può vantare una riduzione notevole del tasso di povertà che è passato dal 48,3% (2005) al 24,9% (2016). Ma restano altri punti d’ombra per Ortega come le indiscrezioni rese note da Wikileaks (2010) di un coinvolgimento del mandatario nicaraguense con il narcotraffico. Su quest’ultima accusa occorre però uscire dal contesto specifico e chiedersi in generale quale credito si vuole dare a questa testata ovvero: fonte di indiscrezioni vere spesso nascoste da chi detiene la leadership o fonte di menzogne e fake news? Perché, come in questo caso, non si può decidere la veridicità delle indiscrezioni in base alle proprie simpatie ideologiche.
Detto ciò, per concludere questa disamina in cui appaiono invero tutti colpevoli di un’escalation violenta senza senso torniamo alla riforma timidamente abbozzata dal governo e subito ritirata in aprile. Cosa voleva dire in concreto la Riforma del Seguro Social? In poche parole la detrazione sugli stipendi per il fondo pensionistico sarebbe passata dal 6,25% al 7%, per i datori di lavoro la contribuzione sarebbe passata dal 19% al 22,5% mentre per le pensioni ci sarebbe stata una riduzione del 5%. Una manovra che a detta di tutti (aziende private e lavoratori) avrebbe di fatto ridotto il potere d’acquisto delle famiglie e svantaggiato notevolmente l’economia interna del paese spingendo nuovamente verso l’alto la povertà.
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