Il 2018 rappresenta un anno molto importante nello scenario latinoamericano in quanto diversi Paesi chiave della regione sono chiamati a eleggere il loro nuovo presidente. In Brasile a ottobre si dovrà dire se il neoliberalismo è già ai titoli di coda in favore di un ripristino del lulismo, o se il Partito dos Trabajadores deve ormai rassegnarsi a rappresentare l’opposizione a una compagine governativa conservatrice. Ma ancor prima Colombia (27 maggio), Venezuela (20 maggio) e Messico (1 luglio) decideranno i rispettivi mandatari.

Il voto in Colombia, Venezuela e Messico

A prescindere da chi seguirà al presidente uscente Juan Manuel Santos, in Colombia ci si dovrà porre quale primo obiettivo il consolidamento della pace concordata tra il governo centrale e le FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia), radicate nel territorio da quasi sessant’anni.

Caracas invece giunge al voto in evidente affanno economico, politico e sociale con un dialogo tra chavisti e opposizione complicato al punto da far vacillare più volte il sistema democratico del Paese, da spingere il Venezuela nel mirino delle sanzioni economiche dell’Occidente e da sospenderlo dal Mercosur (Mercato comune dell’America Meridionale).

Se il Venezuela è ormai pressoché isolato a livello regionale, il Messico si ritrova nella condizione di dover puntare su strategie geopolitiche mirate a una maggiore integrazione con i Paesi latinoamericani.

L’intenzione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump ad allentare l’integrazione commerciale con Città del Messico costringe il Paese centroamericano a dover fare a meno del principale mercato di esportazione dei propri prodotti (oltre il 70% dell’export messicano ha come sbocco il Nord America). Quest’anno il presidente Enrique Peña Nieto terminerà il suo mandato, lasciando al suo successore più dubbi che certezze e non solo in politica estera, ma anche in politica interna con un incremento preoccupante della violenza e un ritorno veemente dei cartelli del narcotraffico.

 

 

Il voto in Paraguay

Tra gli altri Paesi che andranno al voto quest’anno c’è anche il Paraguay, che il prossimo 22 aprile sarà chiamato alle urne per decidere se e come cambiare il proprio corso politico. L’uscente presidente Horacio Manuel Cartes, dopo aver fallito il tentativo di riforma costituzionale per garantirsi la rieleggibilità, ha proposto per la guida del Partito Colorato (formazione di destra) Santiago Peña, trentanovenne ex funzionario del Fondo Monetario Internazionale, definito dallo stesso Cartes come l’“Emmanuel Macron paraguayano”. Ma a spuntarla alla fine è stato il senatore Mario Abdo Benítez, chiamato a dare continuità alla politica neoliberale avviata da Federico Franco nel 2012, dopo la parentesi socialista del destituito Fernando Lugo, e portata avanti da Cartes dal 2013 a oggi.

In contrapposizione al Partito Colorato c’è la coalizione Alleanza per Vincere, costituita dal Partito Liberale (PLRA), dal Fronte Guasù (FA) e da Avanzare, e guidata da Efraín Alegre (presidente del Partito Liberale). Gli ultimi sondaggi danno per favorito Benítez con oltre il 55% dei consensi.

Ma chi è fatto sentire di più in questa campagna elettorale sono stati i campesinos che hanno annunciato di non riconoscersi in nessuna delle forze politiche presentatesi alle elezioni. Durante la XXV edizione della Marcia dei Capesinos, la segretaria generale del movimento, Teodolina Villalba, ha sottolineato come i programmi dei due schieramenti non indichino tra le priorità la necessità di una riforma agraria nel Paese.

Un aspetto visto da sempre come essenziale dalla maggioranza della popolazione del Paraguay, considerato che la sua economia si fonda prevalentemente su sistemi latifondiari dediti alla monocoltura di soia. La questione agraria, pur essendo alla base del processo di destituzione dell’ex presidente Fernando Lugo nel 2012, non ha mai trovato una soluzione andando ad acutizzare il divario sociale nel Paese. Ed è per questo che il movimento campesinos ha deciso di non partecipare al voto del 22 aprile in modo da produrre un impatto negativo sull’affluenza alle urne che nel 2013 era stata del 68,6%.

Tuttavia, è anche interessante quali sono le posizioni del Paraguay a livello internazionale. Il Paese in questi anni ha vissuto una vera e propria ascesa nella regione, passando da una sorta di isolazionismo ideologico-politico con il governo Franco a divenire parte integrante dell’America Latina. Lo scenario regionale che si presentava dinanzi al Partito Colorato all’indomani della destituzione di Lugo, era quello di un accerchiamento socialista nei confronti del Paraguay, l’unico Paese a vestire i panni dello Stato neoliberale: Brasile, Argentina, Uruguay, Venezuela, Bolivia e Ecuador erano sovranità ostili al neo presidente Franco che, sin da subito, si vide sospeso il proprio seggio all’interno del Mercosur in favore del Venezuela di Chavez.

Ma con gli anni quello scenario è radicalmente cambiato. Prima l’Argentina ha eletto nel 2016 Macri alla presidenza dando una svolta neoliberale al Paese dopo dodicini anni di kirchnerismo, poi in Brasile nel 2017 è stata destituita per impeachment Dilma Rousseff in favore di Temer.

Con i principali Paesi della regione allineati sulla visione politico-economica neoliberale, e con l’incombere della crisi politica ed economica venezuelana, il Paraguay ha visto la propria condizione internazionale nettamente migliorata con il governo Cartes, pronto a rilanciare un’offensiva politica nei confronti del socialismo venezuelano, primo antagonista del nuovo assetto regionale. Cartes è stato infatti un fermo sostenitore della sospensione del Venezuela all’interno del Mercosur ottenendo tale risultato nel 2017, contestualmente al delicato dialogo tra l’organismo sudamericano e l’Unione Europea per la definizione di un’area di libero scambio. Caracas poteva provocare un rallentamento del confronto a causa del clima di tensione che si respira nel Paese, ma la sua estromissione dal Mercosur ha permesso all’asse Argentina-Brasile-Paraguay di dirigere il tavolo delle trattative pur con la presenza di un Paese socialista come l’Uruguay.

È questa la situazione che erediterà il prossimo governo del Paraguay. Al popolo la scelta: continuare sulla strada tracciata dal presidente uscente Cartes o decidere di avviare un nuovo percorso in cerca di una sostenibilità prima di tutto interna e poi regionale.