Le clausole di salvaguardia sono delle misure che la UE prende per cercare di “salvaguardare”, dalle spese previste nel bilancio nazionale di ogni paese europeo, i vincoli di bilancio già decisi. In altri termini, le clausole di salvaguardia sono norme che prevedono la variazione automatica di determinate voci di tasse e imposte, con efficacia differita nel tempo, rispetto al momento della loro approvazione. E la questione riguarda direttamente i vincoli che l’Italia ha con la UE, visto che fu proprio il governo di Berlusconi (il quarto Berlusconi) che per vedersi accettata la propria manovra dalla UE, decise di promettere che, nel caso di mancato raggiungimento degli obiettivi previsti, sarebbe stato attuato un piano di revisione delle agevolazioni fiscali; e quindi sarebbe scattata la revisione, per compensazione, delle aliquote IVA. E delle accise petrolifere. Quindi se gli obiettivi previsti non sono rispettati, le clausole vengono immediatamente attivate dalla UE. Il totale di questo impegno/promessa, cioè i denari necessari per sterilizzare tutto fino al 2021 è di 53 miliardi di euro.
Le clausole già disinnescate sono in effetti due, o almeno così sembra: 12,4 miliardi per evitare che l’IVA aumentasse dal 10 al 12% per l’aliquota base; e per l’aliquota intermedia dal 22 al 24%, due clausole che scadevano il 1 gennaio 2019. Poi ci sono anche quelle clausole in scadenza il 1° gennaio 2020, con aumenti previsti fino al 13% e al 24,9%.
L’antefatto della questione è nella ormai famosa tremontiana “manovra di ferragosto” del 2011. Il D.L. 138/2011 diceva che l’IVA saliva comunque dal 20 al 21% (700 milioni in più di gettito e 4,2 miliardi annui dal 2012). Ma se il governo non riusciva a trovare entro il 30 settembre 2012 altri 20 miliardi di “razionalizzazioni”, ovvero dei risparmi di spesa pubblica, gli stessi 20 miliardi sarebbero stati recuperati con un taglio delle agevolazioni fiscali oppure con un aumento delle imposte dirette.
Successivamente col decreto “Salva-Italia” del governo Monti (e qui siamo alla fine del 2011) viene blindata la clausola di salvaguardia dell’allora defunto governo Berlusconi, tramite l’aumento dell’IVA. Da 10 a 12% l’aliquota ridotta, da 21 a 23% l’aliquota ordinaria, se vi ricordate. C’era anche un ulteriore previsto aumento di 0,5 punti a partire dal 2014, per arrivare al livello di 12,5% e 23,5%.
Ma a questo punto scatta la prima vera sterilizzazione: la Spending Review del 2012 rimanda l’aumento dell’IVA al 1° luglio 2013. La sterilizzazione viene perfezionata nella Legge di Stabilità del 2013, con una perdita per le entrate dello Stato di 4,4 miliardi nel 2013 e 2,3 miliardi per ogni anno del biennio successivo.
Il governo Letta riesce poi a recuperare il solo miliardo necessario per posticipare dal 1° luglio al 1° ottobre l’aumento dell’IVA dal 21 al 22%. Alla caduta di Letta, aumenta anche al 22% l’aliquota. Matteo Renzi, che inizia la sua esperienza di Capo del Governo il febbraio 2014 si occupa subito della questione. Renzi riesce, con i famosi “tagli”, a sterilizzare le clausole già previste, ovvero 3 miliardi per il 2015, 7 miliardi per il 2016 e ben 10 per il 2017.
Ma l’ex-sindaco di Firenze attiva altre clausole del tutto nuove con la Legge di Stabilità del 2015, che prevedono 12,8 miliardi per l’anno successivo, 19,2 per il 2017 e ben 22 miliardi dal 2018. Il “rottamatore” riesce a bloccare le clausole del 2016, la manovra di Renzi del 2017 blocca anche l’aumento Iva e delle accise petrolifere che vale, per il 2017, ben 15,3 miliardi, e quindi Gentiloni, subentrato al leader fiorentino, deve reperire quello che manca ancora, 19,2 miliardi.
Il conte Gentiloni Silverj eredita fin dall’inizio due aumenti dell’IVA previsti per il 2018: dal 10% all’11,5% della aliquota ridotta, dal 22 al 25% per quella ordinaria. Si tratta di maggiori incassi per 19,5 miliardi. Ma Gentiloni non vuole, giustamente, gli aumenti e sterilizza parzialmente l’aumento dell’IVA, raccattando nuove risorse per 3,8 miliardi. Quindi bastano 15,7 miliardi di euro per evitare i rincari del 2018. Poi, Gentiloni riesce anche a trovare, nelle pieghe del bilancio, 840 milioni per ridurre di poco l’aliquota ridotta dell’IVA, e riesce anche a reperire altri 340 milioni per evitare l’aumento delle sole accise petrolifere per il 2019. E allora nel Bilancio 2018 si prevede la completa sterilizzazione dell’IVA, a cui però occorrono 14,9 miliardi di copertura.
La legge di Bilancio del 2019 ha, in effetti, sterilizzato temporaneamente le clausole che riguardano l’IVA rinviando il tutto al 2020.
Occorrono gli ormai famosi 23 miliardi per sterilizzare tutti gli aumenti del 2020; e allora, un aggravio che costerebbe, secondo i nostri conti, 530 euro l’anno a famiglia. Ma la giostra delle previsioni sballate e delle strette di bilancio continuerà a girare.
Pubblicato su alleo.it
Marco Giaconi
Laurea in Filosofia moderna e contemporanea presso l’Università di Pisa. Dal 1992 in è prima direttore e poi direttore di ricerca presso il Ce.Mi.S.S. (Centro Militare di Studi Strategici). Nel 2000 è Consigliere del Ministro della Difesa Antonio Martino. Dal 2003 in poi è Consulente della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Autore di numerosi saggi.
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