Mentre il Volcan de Fuego mette in ginocchio il Guatemala portando il numero vittime ad oltre 75, oltre alle migliaia di sfollati e mentre in Nicaragua continua il duro scontro tra le opposizioni, la popolazione civile e il governo con quest’ultimo “colpevole” di non voler riformare il sistema politico del paese in favore di un più equo pluralismo, in Colombia si è eletto il nuovo presidente del Paese. 

Proprio questi due paesi, Nicaragua e Colombia, sono l’immagina di una quasi contrapposizione di corso: nel primo si cerca con forza di muovere il sistema verso il futuro che potrebbe voler dire anche l’epilogo del lungo corso sandinista capitanato da Daniel Ortega, nel secondo le elezioni hanno idealmente segnato un ritorno al passato con gli uribisti tornati a gran voce a riprendere le redini del paese.

 

Ivan Duque si aggiudica il ballottaggio dello scorso 17 giugno ottenendo il 54% (al primo turno aveva raccolto il 39% dei consensi – 27 maggio – contro il 41% del radicale Gustavo Pedro. Un successo annunciato per certi versi se guardiamo il percorso fatto dal Centro Democratico (partito di appartenenza di Duque) dal 2016 ad oggi. Due anni fa proprio il leader del Centro Democratico, l’ex presidente Alvaro Uribe si oppose fortemente ai contenuti dell’accordo di pace tra governo e FARC. Uribe ottenne e vinse un referendum che obbligava il governo di Santos a rivedere i contenuti dell’accordo finale. Una vittoria parziale che tuttavia riporta la forte contrapposizione tra lo stesso Uribe e le milizie guerrigliere che da oltre mezzo lustro costringono la Colombia ad una situazione di guerra civile non dichiarata. Uribe durante la sua presidenza infatti (2002 – 2010) si è contraddistinto per una feroce repressione dei movimenti guerriglieri acuendo lo stato di insicurezza sociale nel paese. Ma nonostante l’opposizione uribista il processo di pace è giunto al suo migliore epilogo nello stesso 2016, ma l’elezione di Duque potrebbe riportare la controversa pacificazione sociale all’ordine del giorno. Falque forte anche dei numeri maggioritari ottenuti dalla destra nel nuovo parlamento (elezioni dello scorso 11 marzo che segnano un ulteriore segnale dell’ascesa degli uribisti alla leadership del paese) ha intenzione di rimettere sul tavolo della discussione l’accordo di pace con una dichiarata riforma unilaterale ai suoi contenuti. Un ritorno al passato è dunque quello che si prospetta in Colombia con il governo che tornerebbe in pratica a dare la caccia ai leader del movimento guerrigliero che si troverebbero a loro volta nella condizione di essere con le spalle al muro e senza alcuna possibilità di fuga se non con il ripristino di una latitanza improbabile (i territori precedentemente occupati dalle FARC sono stati abbandonati e il movimento demilitarizzato). Dura pensare che tutto troverà una soluzione comunque ampiamente accettata nonostante la riforma unilaterale e dura pensare anche che i rapporti con il confinante Venezuela chavista possano migliorare con il confronto tra le due nuove leadership appena insediate. Uribe e Chavez non sono mai stati vicini alla cooperazione e quasi sicuramente non lo saranno nemmeno Duque e Maduro con il primo forte di un antichavismo istituzionale internazionale (da Washington all’Europa le critiche ufficiali al governo di Caracas si sprecano). 

 

Ma nonostante tutto chi appare comunque uscirne vincitore su tutti da queste elezioni è proprio Santos. Il presidente uscente, checché se ne dica, chiude il suo secondo mandato consecutivo con una pace storica per il suo paese. Non per niente ha ricevuto nel 2016 il Premio Nobel per la Pace. Un riconoscimento ulteriore al suo lungo lavoro di mediazione non semplice con i rappresentanti delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC) che trova pur sempre un pieno compimento. Ovviamente il nuovo corso politico colombiano ha le facoltà e soprattutto l’intenzione concreta di rinegoziare l’accordo, ma pur sempre basandosi su un reale atto di armonizzazione sociale desiderato in primis dal popolo che tra guerre di guerriglia e narcotraffico ha sempre sofferto uno stato d’abbandono istituzionale. La pace quindi è fatta seppur con le dovute cautele del caso visto che resta pur sempre vivo l’operato dei signori della droga. E forse proprio quest’ultimo problema diventerà l’alibi per l’entourage di Duque per riaprire le ostilità con gli ex militanti della guerriglia. Infatti molto spesso in passato si è sempre accostata la guerriglia al narcotraffico ipotizzandone la collusione per un sostegno comune tanto da portare i governi colombiani a dirottare ogni sforzo sull’annientamento dei nuclei guerriglieri visti come gli stessi detentori del narcotraffico. Una scelta fuorviante e che molto spesso ha lasciato piena libertà al crimine organizzato che continuava indisturbato l’accrescimento del proprio business. Per onor di cronaca va segnalato che di recente sono stati portati alla luce collegamenti finanziari risalenti agli anni ’90 tra Pablo Escobar e Uribe, ma anche che l’11 aprile scorso, uno dei massimi esponenti delle FARC, Jesus Santrich, è stato arrestato con l’accusa di traffico di droga. Si conclude quindi che Santos ha guadagnato il suo nome sui libri di storia, ma il vero futuro di pace per la Colombia è ancora lontano dal prender forma tra la diffusione capillare del narcotraffico (fin dentro le istituzioni) e l’avvio di un nuovo uribismo targato Duque.