Il governo turco ha ordinato all’esercito di ammassare truppe e carri armati sul confine siriano. Più precisamente a nord di Aleppo, lungo la lingua di terra che va dalla provincia di Hatay (Antiochia) fino alla sponda occidentale dell’Eufrate. L’obiettivo è raggiungere Afrin e Manbij e liberare questi distretti dai «nidi di terroristi» curdi. I ribelli siriani e unità di turcomanni si uniranno all’esercito di Ankara per l’imminente offensiva militare.
Le aree in questione sono attualmente controllate dalle Unità di protezione del popolo curdo (YPG), che Ankara considera gruppo terroristico in quanto estensione del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), che da decenni lotta per vedere riconosciuta l’autonomia curda in Turchia. Questi gruppi sono da sempre obiettivi strategici della guerra di Ankara, che ha inquadrato quest’area come possibile conquista territoriale già a partire dallo scoppio della guerra civile in Siria.
Il presidente Erdogan vorrebbe creare qui una sorta di stato cuscinetto che tuteli la forte presenza dei turcomanni nella regione e al contempo si frapponga ai progetti espansionistici dei curdi – che qui vogliono concretizzare lo stato autonomo della Rojava – ma anche di Damasco, il cui governo punta a riconquistare l’intero territorio siriano con l’aiuto di Russia e Iran.
Già in passato, l’esercito turco ha bombardato Afrin dalle posizioni che controlla nella vicina provincia siriana di Idlib, confinante con gli ultimi territori ancora saldamente in mano ai ribelli, tra i quali si annoverano anche numerosi jihadisti (sia qaedisti che uomini dello Stato Islamico). L’intensificarsi della presenza turca nella provincia settentrionale di Idlib è parte di un accordo siglato con Russia e Iran, che hanno in comune l’obiettivo di ridurre i combattimenti tra le fazioni ribelli e le forze filo-governative siriane. Ma la de-escalation potrebbe saltare presto.
L’Operazione Scudo dell’Eufrate
Non è la prima volta che la Turchia penetra in Siria. Nel 2016, ad esempio, ha sostenuto l’offensiva denominata Operazione Scudo dell’Eufrate per cacciare i militanti dello Stato Islamico via da Jarablus e Al Bab, due città strategiche l’una al confine turco e l’altra lungo l’autostrada che da Aleppo conduce a Raqqa. L’operazione è riuscita ma l’obiettivo finale restano i curdi, ai quali il governo turco vuole togliere ogni ulteriore spazio di manovra.
Il funzionario curdo incaricato di difendere la zona, Bahjat Abdo, ha risposto alla mossa turca attraverso l’agenzia di stampa ANHA, riferendo con tono bellicoso che «la Turchia è consapevole del fatto che entrare ad Afrin non sarà facile, perché è stato proprio il popolo di Afrin a trasformare questa regione in un cimitero per mercenari estremisti sostenuti dalla Turchia». Secondo i media curdi, nella zona oggetto delle mire turche si troverebbero attualmente circa 500.000 persone.
Ankara ha inoltre aspramente criticato gli Stati Uniti negli scorsi giorni, rei di sostenere le Forze Democratiche Siriane (SDF) che rappresentano la coalizione arabo-curda che ha guidato la vittoria contro il Califfato a Raqqa, e che è comandata da ufficiali curdi. «Ci hanno pugnalato alle spalle» è stato il commento diretto alla Casa Bianca. Lo stesso presidente Erdogan ha quindi esortato la NATO (di cui la Turchia fa parte) a fermare gli Stati Uniti, che stanno aiutando l’SDF a creare una «un esercito di terroristi» alle sue frontiere. E ha aggiunto che è dovere del suo governo impedirlo.
La politica estera della Turchia
La politica espansiva di Ankara è stata voluta dal suo attuale presidente Recep Tayyip Erdogan, già premier e leader del partito AKP, che ha cavalcato il post Primavere arabe contando di poter facilmente convogliare la rabbia e le rivendicazioni delle grandi masse sunnite verso una serie di obiettivi, militari ancor prima che politici. Erdogan contava di riuscire a volgere in suo favore la guerra in corso, scoppiata perché si vogliono ridisegnare i confini ormai obsoleti di questa parte di Medio Oriente, frutto degli accordi anglo-francesi di un secolo fa.
L’idea di Erdogan era sostanzialmente tesa a ricalcare i fasti dell’Impero Ottomano. Per questo la sua politica estera puntava ad assoggettare quelle aree che Ankara considera tuttora il suo naturale bacino di pertinenza, ovvero il territorio che per circa cinquecento anni è stato dominio ottomano, a cominciare proprio da Mosul e Raqqa.
Per fare questo, Ankara ha inizialmente favorito l’espansione dello Stato Islamico e solo dopo, con il progressivo arretrare del Califfato, ha schierato direttamente truppe turche a presidiare il terreno perso dai jihadisti, rivelando così ancor più chiaramente quali ambizioni geopolitiche nutra sopra la Siria e l’Iraq. Dopodiché ha rivolto le armi contro gli stessi uomini dello Stato Islamico che aveva inizialmente incoraggiato.
Chi sono i curdi
I curdi sono un’etnia che abita le regioni montuose a cavallo tra Turchia, Iraq, Siria, Iran e Armenia. Spesso ci si riferisce al loro territorio con espressioni come “enclave” e “regione autonoma” oppure usiamo il termine “Kurdistan” associato a uno di questi quattro Paesi. Mai una volta, invece, abbiamo sentito la parola “Stato curdo” perché il Kurdistan non è uno Stato. Ed è proprio questo il problema, il dramma se vogliamo, che attanaglia questa popolazione.
Sono in totale circa 30 milioni di persone, la maggior parte delle quali vive all’interno del territorio turco, e costituiscono il quarto gruppo etnico in Medio Oriente. La loro storia è caratterizzata da nomadismo: storicamente i curdi erano pastori erranti che pascolavano per le pianure della Mesopotamia e gli altopiani che vanno dalla Turchia sud-orientale fino all’area sud-occidentale dell’Armenia.
I curdi non hanno una vera e propria lingua né un’unica religione, sebbene per la maggior parte siano musulmani sunniti. Non avendo una propria patria, hanno però l’esigenza di crearla. Da cui il Kurdistan, che vorrebbe essere uno Stato indipendente e farsi spazio tra questi Paesi. I curdi, invece, sono rimasti “incastrati” dopo la prima guerra mondiale, con la sconfitta dell’Impero Ottomano, quando gli alleati occidentali, vincitori della guerra, previdero la creazione di uno stato curdo (nel Trattato di Sèvres del 1920) ma poi dimenticarono di dargli sostanza.
Così, le varie enclave curde reclamano da allora l’indipendenza – ma si accontenterebbero anche di federazioni e vere autonomie regionali – e costituiscono un problema politico per ciascuno dei Paesi in cui abitano. La popolazione curda non è stata esente da persecuzioni e massacri.
I curdi in Turchia
In Turchia, dove abita oltre il 20% della popolazione curda totale, le rivolte iniziarono già negli anni Venti del Novecento e col tempo nomi e costumi curdi furono vietati, l’uso della lingua venne limitato e all’identità etnica curda si preferì il termine tolkeniano “Turchi delle montagne”.
Negli anni Settanta, fu Abdullah Ocalan a radicalizzare le posizioni curde e a costituire nel 1978 il PKK, partito che iniziò la lotta armata contro la Turchia ma non ottenne altro che 40mila morti, migliaia di profughi e il carcere per Ocalan. Nel 2012 sono iniziati i colloqui di pace e la contemporanea tregua. Ma il PKK ha mantenuto armi e contiguità con altri gruppi curdi armati, come il YPG, le unità di protezione popolare che al momento combattono soprattutto lo Stato Islamico in Siria.
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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