Dimissioni Zingaretti, Pd nel caos

Con un post su Facebook, Nicola Zingaretti annuncia le dimissioni da segretario del Partito Democratico. Il Presidente della Regione Lazio si «vergogna» del suo partito, a causa delle polemiche provenienti da alcune correnti, Base Riformista e i Giovani turchi su tutte, e del malumore dei territori, dove ancora non si si sono comprese le ultime strategie: dall’appoggio incondizionato a Conte al via libera per la nascita del Governo Draghi.

Una situazione bloccata che Zingaretti risolve con l’atto più clamoroso. «Visto che il bersaglio sono io, per amore dell’Italia e del partito, non mi resta che fare l’ennesimo atto per sbloccare la situazione. Ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità. Nelle prossime ore scriverò alla Presidente del partito per dimettermi formalmente», così il segretario del Pd conclude il post su Facebook.

Quella di Zingaretti è una scelta figlia degli eventi degli ultimi giorni. Un sonsaggio, in particolare, pubblicato in questi giorni, ha scosso il centrosinistra. Era il primo sondaggio da quando è terminata l’esperienza di Giuseppe Conte come capo del Governo. Il sondaggio premia il M5, orfano di Di Battista che ha lasciato polemicamente il MoVimento, e l’ex Presidente del Consiglio, che da “tecnico d’area” è diventato ormai un politico a tutto tondo. Secondo SWG, il M5S capitanato dall’ex Premier guadagnerebbe un sostanzioso 6,2 per cento. Allo stesso tempo il Pd, l’alleato più stretto dei pentastellati, registrerebbe una perdita del 4,3 per cento nei consensi.

Ed è proprio a fronte di questo calo, che sono nate le reazioni di Base Riformista, la corrente più attiva nel contestare le scelte della segreteria Pd. Di conseguenza, insieme alla componente di Orfini, i Giovani turchi hanno chiesto un «chiarimento», arrivando a far circolare l’idea di un congresso anticipato utile a ridiscutere la politica del partito. Un’idea inizialmente bloccata dal segretario dem che sapeva di non avere i numeri per una riconferma.

Un avviso di sfratto per Zingaretti

Più di una componente del partito stava già costruendo l’alternativa al Presidente della Regione Lazio e pensa di averla trovata nel “collega” Stefano Bonaccini. Le trame delle correnti, figlie degli scarsi risultati raccolti dal Pd, hanno portato alle dimissioni anticipate di Zingaretti, che lascia un partito ancora più nel caos.

La confusione nei dem è conseguente a una strategia politica fondata sull’alleanza organica con i pentastellati, che ad oggi ha portato un solo risultato concreto: il rafforzamento del M5S e l’indebolimento del Pd.

Il Partito Democratico, da quando è iniziata la crisi di Governo del Conte II, ha sempre indicato l’avvocato di Volturara Appula come «garante» dell’alleanza con i grillini, un «punto di riferimento dei progressisti», fino a immolarsi durante le consultazioni col Capo dello Stato. «Il Partito democratico ha una sola parola ed esprime un nome come possibile guida di un nuovo governo di cambiamento, quello di Giuseppe Conte».

La narrazione su Conte «federatore» dei progressisti ha prodotto scompiglio all’interno dei dem, perchè ha lasciato il Pd senza un solido ancoraggio politico. A dimostrazione di questo, è arrivata “l’incoronazione” dell’ex Premier a leader politico.

Non appena Giuseppe Conte è stato nominato leader del M5S, il Pd si è ritrovato all’angolo, senza una valida alternativa e con l’imbarazzo di dover spiegare al proprio elettorato, e soprattutto alle riottose componenti parlamentari, che la persona indicata fino a poco tempo prima come «amico e  garante», si era trasformata nel leader di un partito che, per quanto alleato, era diventato concorrente.

L’imbarazzo dei democratici si respira anche in seno al Parlamento Europeo. Se si esclude la parentesi con il gruppo euroscettico di destra EFD/Europa della Libertà e della Democrazia Diretta, in Europa il M5S snon è affiliato ad alcun partito europeo, nonostante i ripetuti tentativi di avvicinamento ai Verdi o ai Liberali.

Per un partito, essere iscritti a un gruppo parlamentare è fondamentale perchè permette l’accesso ai fondi di funzionamento del gruppo, al diritto di intervento in Aula (i membri del gruppo Misto hanno meno tempo a disposizione rispetto agli altri gruppi) e soprattutto alla presidenza delle Commissioni.

Proprio per non rassegnarsi all’irrilevanza in Europa, il M5S cerca di entrare nel PSE, il Partito Socialista Europeo, e  in questa direzione vanno lette le parole pronunciate da Giuseppe Conte all’Hotel Forum di Roma, dove è stato scelto leader del partito pentastellato: «È evidente che per noi l’asse è quello di centrosinistra. Sono i temi che ci portano lì»

Tuttavia, per entrare nella famiglia socialista europea il M5S ha bisogno dell’assenso del Pd e i democratici tentennano nel prendere una decisione. Il Pd prende tempo perchè sa bene che se sceglie di dare il via libera ai pentastellati nel PSE, taglierebbe definitivamente i ponti con i gruppi liberali in Italia, come Azione, +Europa e  Italia Viva. E infatti Carlo Calenda, leader di Azione, si è affrettato a far sapere che se il M5S entrerà nel PSE, lascerà il gruppo.

Ma potrebbe esserci anche un’ altra ragione per cui il Pd temporeggia nella decisione. Nel 1992 Bettino Craxi aprì le porte dell’Internazionale Socialista al neonato PDS e di lì a poco, insieme al PSI, contribuì alla nascita del PSE. Come confessa Massimo D’Alema nelle sue memorie, gli eredi del PCI  volevano entrare nell’Internazionale Socialista, e nel nascituro PSE, con l’obiettivo di “sostituirsi al PSI” come interlocutore privilegiato. Trent’anni dopo i democratici lavorano perché nel gruppo socialista  europeo vengano accolti i 5 Stelle, un movimento che fino a poco tempo fa sedeva tra le fila del gruppo di estrema destra del Parlamento Europeo. Probabilmente, gli eredi del PCI, hanno paura di fare la fine del PSI craxiano: dare il via libera alla loro sostituzione.