La sconfitta dello Stato Islamico l’ottobre scorso a Marawi, città delle Filippine situata nell’isola di Mindanao nella provincia di Lanao del Sur, non ha segnato l’eliminazione definitiva della minaccia jihadista dal Sud-Est asiatico. Dopo cinque mesi d’assedio e centinaia di perdite, i combattenti islamisti sono riusciti a fuggire portandosi dietro un enorme bottino: soldi, oro e gioielli, frutto di saccheggi, per un valore stimato dall’agenzia Reuters in decine di milioni di dollari.
Quando nel maggio del 2017 i gruppi jihadisti hanno lanciato l’attacco a Marawi – con in testa i gruppi Abu Sayyaf e Maute – sono state date alle fiamme chiese, aperte le carceri e messi in libertà migliaia di detenuti e, soprattutto, presi di mira negozi, gioiellerie e abitazioni dei cittadini più facoltosi. Molte persone sono state prese in ostaggio nel tentativo di ottenere dei cospicui riscatti. Inoltre, usando degli esplosivi gli islamisti si sono fatti largo nei caveau delle tre principali banche della città: Landbank, la Banca Nazionale delle Filippine e la Banca Islamica di Al Amanah.
L’inizio delle razzie è coinciso non a caso con l’arrivo del Ramadan, il mese sacro per i musulmani. A Mindanao, isola a netta maggioranza musulmana rispetto al resto del Paese popolato invece in prevalenza da cristiani, le celebrazioni sono molto sentite. Tra gli abitanti di Marawi, in particolare, c’è l’usanza di scambiarsi regali in denaro durante i giorni di festa. Testimoni dei saccheggi hanno parlato dell’arrivo in città di furgoni a bordo dei quali, una volta scoppiato il caos, sono stati caricati sacchi di banconote, casse d’oro e altri oggetti di valore. «Mentre svaligiavano le case dicevano che era un dono di Allah», ha dichiarato alla Reuters uno degli abitanti del posto derubati.
Le autorità filippine, accusate in quei giorni di aver lasciato che poliziotti e agenti approfittassero a loro volta della confusione, non hanno fornito una stima ufficiale di quanto sia finito nelle mani degli islamisti. Ma la cifra potrebbe ammontare fino a circa 2 miliardi di pesos (39,4 milioni di dollari).
Chi c’è a capo dei ribelli islamisti
A capo dei sopravvissuti di Marawi c’è Humam Abdul Najib, noto anche come Abu Dar. Imam radicale, combattente, si è formato in Medio Oriente e ha avuto esperienze di guerra in Afghanistan. Nel 2012 è stato tra i fondatori del gruppo Khalifa Islamiyah Mindanao, autore in questi anni di una serie di violenti attacchi e attentati sull’isola di Mindanao. Najib vanta legami diretti con i vertici di Al Qaeda che gli sono valsi il soprannome di “Al Zarqawi delle Filippine”. Nel 2014 ha giurato fedeltà allo Stato Islamico del Califfo Abu Bakr Al Baghdadi.
In questi anni Najib ha inoltre operato a stretto contatto con Mahmud Ahmad. Di origini malese, Ahmad sarebbe stato ucciso nei combattimenti di Marawi. Era lui a tenere i contatti tra i gruppi delle Filippine affiliatisi a ISIS e la base dell’organizzazione in Siria e Iraq.
A differenza sua, Najib è invece riuscito a salvare la pelle. Ha lasciato Marawi all’inizio dei combattimenti – pare per dispute con altri leader islamisti – e vi ha fatto ritorno nell’agosto scorso con al seguito circa 100 combattenti. Non è riuscito a rompere l’assedio dell’esercito filippino, ma in compenso si è dileguato con svariati milioni di dollari.
Adesso il suo quartier generale si troverebbe in un’altra area di Lanao del Sur. Qui Najib starebbe investendo parte del denaro in suo possesso per reclutare giovani e bambini che in questa provincia, una delle più povere delle Filippine, lottano ogni giorno contro la fame. Finora sarebbero state circa 250 le nuove leve assoldate per compiere nuovi attacchi.
Alle famiglie il gruppo di Najib offrirebbe fino a 70.000 pesos (1.380 dollari) più uno stipendio mensile di circa 30.000 pesos (590 dollari) in cambio dei loro figli. Per molte di queste famiglie si tratta di un’offerta irrinunciabile considerato che il reddito medio mensile per nucleo famigliare nelle Filippine è di 22.000 pesos, che scendono a 11.000 pesos nella regione autonoma di Mindanao. Per incentivare i reclutamenti, i jihadisti avrebbero messo in palio anche dei bonus: ad esempio, fino a 10.000 pesos (200 dollari) per l’uccisione di un soldato.
Nelle fila della milizia di Najib sono finiti anche mercenari, attratti dagli ottimi ingaggi. L’organizzazione starebbe anche facendo leva sul malcontento della popolazione locale, risentita nei confronti del governo del presidente Rodrigo Duterte per i mesi di bombardamenti subiti nella battaglia contro gli islamisti. È una strategia di cui ISIS, e ancor prima Al Qaeda, hanno fatto larghissimo uso in tutto il mondo per ottenere consenso e ingrossare i loro eserciti.
Il futuro di ISIS nel Sud-Est asiatico
Secondo diversi analisti, con i milioni di dollari rubati a Marawi Najib si candida per diventare il nuovo emiro dello Stato Islamico nel Sud-Est asiatico, colmando il vuoto lasciato dall’uccisione dello storico leader di Abu Sayyaf Isnilon Hapilon.
Dunque il progetto della costituzione di un emirato islamico nel Sud-Est asiatico non può dirsi affatto tramontato, e le sue residue possibilità di realizzazione passano per le Filippine. «Si stanno armando e stanno cercando nuovi combattenti – ha confermato il colonnello dell’esercito filippino Romeo Brawner, vice comandante della task force che vigila su Marawi. Crediamo che presto lanceranno nuovi attacchi». Preoccupazione condivisa dal portavoce del presidente Duterte Harry Roque: «C’è sempre il pericolo che questi gruppi recuperino forze sufficienti per condurre un’altra operazione simile a quella di Marawi».
Un primo segnale in questa direzione si è avvertito lo scorso 20 gennaio, quando nella provincia di Lanao del Sur dei miliziani hanno teso un’imboscata a un gruppo di soldati ferendone otto. I jihadisti sono tornati nelle Filippine. Anzi, non se ne sono mai andati.
Rocco Bellantone
Caporedattore di Babilon, giornalista professionista, classe 1983. Collabora con le riviste Nigrizia e La Nuova Ecologia di Legambiente. Si occupa di Africa, immigrazione e ambiente.
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