La Germania tra proiezione di potenza e ombrello nucleare, II parte

La Westbindung ci fornisce un insegnamento rimarchevole: la Germania può imporre un modello di disciplina collettiva, ma esso non ha nulla a che vedere col paternalismo a trazione totalitaria della Cina.

La Germania fa affari, tesse rapporti commerciali, sigla intese economiche, ma non mette a repentaglio il proprio principio di sicurezza, che non significa esclusivamente sicurezza militare ma prima di tutto sicurezza del proprio modello culturale e antropologico.

Se si leggono le linee guida denominate Policy guidelines for the IndoPacific region. Germany – Europe – Asia: shaping the 21st century together, un documento emanato dal Governo tedesco, si capisce come Berlino, più di Parigi, sia ben poco disposta a coinvolgere i cinesi in  questioni altamente strategiche, e men che meno ad affidare a Pechino alcuna leadership, persino nello stesso scenario Indo-pacifico. La Cina sarà costretta a cambiare il proprio modello se vuole sopravvivere economicamente, anche perché ha un problema demografico di vasta portata. La Germania non ha bisogno di cambiare il proprio modello, ma solo di ristrutturarlo, poiché le sue basi sociali sono più solide e accettate culturalmente senza la coercizione. Per un grande cultore delle scienze economiche tedesche come Karl Polanyi, l’economia non è una scienza fondata su leggi empiriche bensì è figlia della cultura del popolo, della società, della religione e dei costumi.

Il federalismo sostanziale tedesco, che si è nutrito via via di Lutero, Hegel, List, Malthus, Weber, è l’ossatura che regge un sistema di mercato che – piaccia o meno – funziona; lo dimostra la discussione circa i diritti in gioco nell’epoca del Covid-19, introdotta da un organismo dello Stato, il Deutsche Ethikrat, che, in un documento presentato durante la prima ondata pandemica, ha dato voce pubblicamente ad una pluralità di interventi e opinioni sulle misure da adottare, soprattutto in relazione agli effetti collaterali sulla vita economico-industriale e sulla tenuta psichiatrica dei cittadini.

Un metodo molto diverso dall’approccio autoritario cinese alla pandemia. La Germania sta plasmando un’area politica, economica e geopolitica neo-carolingia composta da più Stati, che si porrà in rapporto dialettico e integrativo con gli Stati Uniti: un blocco europeo, la cui articolazione è in corso, che si pone alcuni obiettivi di lunga durata: garantire l’ordine pubblico, ristrutturare il sistema economico eliminando i fallimenti del mercato (anche attraverso interventi di stabilizzazione finanziaria come il Recovery Fund), limitare la penetrazione cinese nei settori strategici delle infrastrutture critiche (il dossier Huawei/5G), proteggere i centri nevralgici delle connessioni logistiche – che sono ça va sans dire globali – (si veda il caso del porto di Trieste) che servono a svolgere un ruolo strategico nel Mediterraneo, da Tangeri fino al “centro di ascolto” cinese a Gibuti, passando per l’East Med, dove nel quadrante si intersecano dossier riguardanti i flussi energetici e migratori, la questione turca e i diritti sovrani di Cipro e Grecia sulle proprie Zee, la forza economico-finanziaria della criminalità organizzata transnazionale e il terrorismo.

Per i tedeschi, la ricerca di uno spazio vitale (Lebensraum) e di un sistema mondiale incentrato su concetti come disciplina e stabilità non è intesa come mera conquista di sfere di influenza mercantili, ma rappresenta qualcosa di più ancestrale. La terra delle antiche tribù germaniche che provenivano dal Nord è priva di confini naturali, ad eccezione delle Alpi. I pericoli, sin dalle epoche remote, provenivano da Ovest ma soprattutto da Est, e questa è diventata una sorta di
ossessione che si è tradotta storicamente in una colonizzazione di tipo bellico, economico, anche demografico.In fin dei conti, nella Storia tedesca non esiste neppure il concetto di confine, se non a livello normativo.

Nella sua antica proiezione di potenza, che in era moderna fu delineata politicamente da Bismark e da Guglielmo II, e sistematizzata geopoliticamente da Haushofer, la frontiera è un’incessante ricerca di quello che io chiamo principio di sicurezza come assillo, fatto di regole, rigore, certezza, efficienza, solerzia, che Haushofer tentò di innestare nella prospettiva tutta tedesca di controllare la terra per essere inattaccabili dal mare. Il confine per i tedeschi non è solo uno spazio vitale in termini espansionistici o imperiali, ma è in primo luogo un concetto culturale e spirituale. Haushofer riconobbe che se la Germania avesse potuto controllare l’Europa dell’Est e poi la Russia, avrebbe potuto mettere in sicurezza un’area strategica priva di un potere marittimo ostile. Dopo la fine della Guerra Fredda, Berlino ha investito capacità politica e forza economica per disinnescare la Jugoslavia e assorbire gli attori statali del Patto di Varsavia nell’UE. La Germania è stata il primo attore statale a riconoscere l’indipendenza della Croazia e della Slovenia.

Tra un’alleanza strategica con la Russia, altra potenza sostanzialmente continentale, e l’espansionismo autonomo verso Oriente, Berlino ha scelto la seconda opzione, scegliendo di non mediare con Putin sulla questione ucraina. La Germania ha rinunciato anche a contrastare il Regno Unito (l’unica vera potenza navale insieme agli Stati Uniti, nel Mediterraneo), e questo sarà un elemento chiave che persisterà nella politica di contrasto alla Russia, alla Cina, a fasi alterne alla Francia.

La forza e il limite dello Stato tedesco è quello di trovarsi al centro del continente, una posizione geografica che tuttavia incarna il rischio di una perenne guerra su più fronti, e per questo motivo la Germania ha sempre provato disinteresse per il Mediterraneo come area di espansione o minaccia. E ancora, oggi l’idea di una visione strategica soltanto tedesca o europea è illusoria: gli europei non sono in grado di sostituire il ruolo indispensabile degli Stati Uniti quale attore che fornisce sicurezza edifesa.

Anzi, come sottolineano le persone più influenti vicine ad Angela Merkel, secondo la Cancelleria c’è un lampante bisogno strategico di cooperazione transatlantica, che lo si guardi da Berlino come da Washington, su tutti i dossier internazionali, dai quelli economici a quelli che afferiscono la sicurezza globale. In un mondo caratterizzato da una competizione per le risorse a tutti i livelli, l’Occidente potrà resistere e difendere i propri interessi (anche i cosiddetti “interessi nazionali”) solo rimanendo unito, potendo contare su un’articolazione europea diversa da quella attuale ma “rigida/flessibile”, e comunque a trazione prevalentemente tedesca.

L’Europa resterà dipendente dalla protezione militare statunitense, sia nucleare che convenzionale, per dare al campo occidentale un hub competitivo nella nuova Globalizzazione selettiva, così come, allo stesso tempo, si produrrà molto presto un accordo commerciale Stati Uniti-UE su mercati, regole, valori, standard universali e strategie d’influenza. L’articolazione europea in questa nuova Globalizzazione selettiva è l’integrazione. Ciò significa che l’America, correggendo almeno in parte lo spostamento del proprio asse strategico dall’Atlantico-Medio Oriente all’India/Pacifico, deve mantenere l’Europa sotto il proprio ombrello nucleare «sia per scoraggiare» – come scrisse Vittorfranco Pisano, già consulente della Sottocommissione Sicurezza e Terrorismo del Senato americano – «aggressioni su grande scala, sia per respingerle contemporaneamente in due teatri di operazioni situati all’estero» rispetto a «rischi non convenzionali quali l’utilizzo delle armi di distruzione di massa (cioè, nucleari, biologiche e chimiche), la guerra informatica e il terrorismo». La Germania, dal canto suo, confermerà la sua presenza all’interno del programma di condivisione nucleare della NATO e assegnerà le risorse di bilancio e militari imprescindibili per rimanere un partner affidabile, in un’epoca in cui i principali teatri di conflitto per l’Alleanza Atlantica sono e saranno, per l’appunto, la guerra informativa, chimica, biologica, radiologica, nucleare, con un’accentuazione delle dispute marittime per il controllo delle risorse marine (marittimizzazione dei conflitti).

L’intelligenza geopolitica di Angela Merkel è stata quella di evitare lo scivolamento a Est della Germania (esemplificato a uso e consumo dell’opinione pubblica dal caso Navalny, un’operazione di deception dentro la guerra irregolare).

Merkel ha sviato la politica estera di Trump, ma anche i critici della NATO, in patria e fuori, insistenti nei loro sentimenti antioccidentali, pericolosamente neutralisti, troppo vicini a posizioni russe. La neutralità non esiste come opzione. La Germania non distruggerà il proprio mondo, di cui ha bisogno per prosperare e proteggere la propria proiezione di potenza. Ha bisogno di Stati forti e ristrutturati intorno a sé, ad esempio l’Italia, con la sua economia integrata nel sistema tedesco e per la sua collocazione a geopolitiche plurime, dal continente ai corridoi mediterranei passando per i Balcani. Berlino ha bisogno della presenza militare della Francia, ha bisogno dei paesi baltici a Est, ha bisogno degli Stati Uniti, che porranno fine alla guerra commerciale con Berlino, per difendere la Westbindung di Adenauer e tutto quello che di più recondito rappresenta.

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Questo saggio breve è dedicato alla memoria del Prof. Marco Giaconi Alonzi, recentemente scomparso.