Per la sua prima base militare all’estero la Cina ha deciso di pescare nel cuore del Mar Rosso. La scelta è caduta nel luglio 2017 sul piccolo Stato di Gibuti situato nel Corno d’Africa: uno spicchio di terra popolato da poco più di 800mila persone, confinante con l’Eritrea a nord, l’Etiopia a ovest e a sud, la Somalia a sud-est, ma soprattutto affacciato sullo strategico stretto di Bab el-Mandeb. È in queste acque, infatti, che si concentrano i maggiori traffici marittimi a livello internazionale di portacontainer e petroliere che dall’Oceano Indiano risalgono il Canale di Suez per entrare nel Mediterraneo.

Tramite l’agenzia di stampa governativa Xinhua Pechino ha dichiarato che la base militare che verrà costruita in Gibuti sarà utilizzata come centro di coordinamento dei contingenti cinesi impegnati in missioni di peacekeeping in Africa (la Cina è impegnata in Sud Sudan dal 2015) e Asia Occidentale. Inoltre, servirà per intensificare i rapporti con quei Paesi dell’area con cui sono stati raggiunti accordi di cooperazione militare e per effettuare esercitazioni navali. I riflettori della Cina saranno però puntati principalmente sulle navi commerciali che attraversano lo stretto di Bab el-Mandeb al fine di salvaguardarle da eventuali attacchi di pirati.

 

GIBUTI

 

La spedizione in direzione di Gibuti è partita dalla città portuale di Zhanjiang, nel sud della Cina, l’11 luglio. I lavori di costruzione della base sono iniziati nel 2016. I militari che opererano al suo interno dall’inizio non sono più di 300, mentre la capienza massima è di circa 2mila unità.

Le mira espansionistiche della Cina in Africa non sono una novità. Nel 2015, nel corso di un sontuoso summit con i leader delle nazioni africane, Pechino ha annunciato un maxi piano di investimenti di 60 miliardi di dollari per accompagnare lo sviluppo del Continente. Da allora, in cambio della realizzazione di grandi opere (autostrade, linee ferroviarie, ponti, intere città), la Cina ha avuto le porte spalancate per accedere ai commerci e, specialmente, alle risorse naturali ed energetiche di tutta l’Africa. Anche Gibuti ha beneficiato del “balzo in avanti cinese” in Africa. Tra le infrastrutture realizzate nel suo territorio, vi sono i binari che collegano il Paese ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia.

A chi ha accusato Pechino di voler accrescere la sua presenza militare in Africa costruendo una base in Gibuti, il governo cinese ha risposto ricordando che anche altri Stati dispongono da tempo di propri compound nel Paese: Stati Uniti, Giappone, Francia e anche l’Italia, che qui può contare su una base di logistica al cui interno operano 110 unità.

A esprimere maggiore preoccupazione per l’avanzamento cinese in Africa sono stati India e Giappone. Il governo di New Delhi si è detto timoroso del fatto che quello in Gibuti potrebbe essere solo il primo di molti altri avamposti cinesi nell’Oceano Indiano. Tokyo, invece, ha dichiarato che accelererà i lavori di ampliamento della propria base nel Paese per contrastare la crescente influenza della Cina nella regione.

 

GIBUTI UNITED STATES

 

Nell’elenco degli indispettiti, ovviamente, non potevano mancare gli Stati Uniti. Il Pentagono da tempo fa decollare i suoi droni per raid in Yemen e Somalia dalla base di Camp Lemonnier, situata a pochi chilometri dalla capitale di Gibuti. Qui sono di stanza circa 4mila soldati americani, impiegati in operazioni speciali nel Corno d’Africa e nella Penisola Araba. Dal settembre del 2013 i rapporti con il governo locale si sono però iniziati a complicare. Il Paese africano ha infatti chiesto agli USA di trasferire parte dei suoi droni in un’altra pista d’atterraggio (attualmente in fase di allestimento) preoccupato che i continui movimenti statunitensi potessero interferire con il traffico civile del vicino aeroporto internazionale. Evidentemente la nuova Amministrazione americana del presidente Donald Trump non ha ritenuto finora prioritario intervenire per risolvere la “piccola” crisi diplomatica con Gibuti. Adesso però, con la Cina di mezzo, la situazione si complica ulteriormente.