Era il 1881 quando il governo della Terza Repubblica Francese stabilì il Protettorato sulla Tunisia, già obiettivo dei propositi coloniali del Regno d’Italia. Fu un attacco durissimo tanto che l’allora primo ministro, Benedetto Cairoli, dovette dimettersi e la stampa parlò di «schiaffo di Tunisi». Allora i francesi ci dissero: «prendetevi la Libia». Tuttavia, quando dallo scatolone di sabbia iniziò a zampillare il petrolio le cose cambiarono e l’Eliseo prese a guardare con un certo interesse la nostra ex colonia.

Si tratta di fatti consegnati alla storia, ma che riaffiorano alla memoria osservando la politica d’oltralpe in Libia che vede nel presidente Emmanuel Macron uno dei protagonisti più attivi degli ultimi anni. D’altra parte, la difesa degli interessi nazionali è da sempre il pivot della strategia estera francese e nell’ex Jamairyia questi hanno almeno tre nomi: armi, idrocarburi e protagonismo africano.

Iniziamo dal primo. Nel gennaio del 1970 Parigi stipulò un contratto con il governo di Tripoli per la fornitura di un jet Mirage. Fu l’inizio di un rapporto che, tra alti e bassi, è andato avanti per molti anni. Arriviamo così al 2007, quando Gheddafi piantò la tenda davanti all’Eliseo, firmando contratti per oltre 10 miliardi di dollari per acquistare un’intera flotta aerea da combattimento, confezionata dal colosso Dassault. Gli accordi non furono mai onorati dal leader libico che, invece, siglò un trattato con l’Italia nel 2008, grazie al quale Tripoli avrebbe intascato assegni annuali per 250 milioni di dollari da spendere in opere infrastrutturali.

La perdita dei contratti libici è stata probabilmente uno degli elementi che ha portato la Francia a desiderare la sostituzione di Gheddafi. Eppure, Sarkozy le aveva provate tutte, coinvolgendo addirittura gli Emirati Arabi Uniti, disposti ad addestrare piloti libici e a cofinanziare l’operazione (qualche anno più tardi, proprio da Abu Dhabi giungeranno le garanzie e i prestiti per la vendita di armi francesi alle milizie di Haftar).

Oggi gli Emirati sembrano il nuovo asset del presidente Macron, che ha impennato l’export di armi verso lo Stato del Golfo – secondo nell’area solo all’Arabia Saudita – arrivando a definirlo un partner essenziale nella lotta al terrorismo. A ben guardare, però, gli Emirati sono un partner essenziale per ben altri affari, compresi quelli in Libia.

Arriviamo così al gas naturale, vera ricchezza libica, e al petrolio. Prima della caduta del rais, solo la produzione di greggio in Libia ammontava a quasi a un milione e 600mila barili al giorno. Nel 2010 l’italiana ENI, con i suoi 267 mila barili al giorno, primeggiava, e di molto, sulla tedesca Wintershall e sulla francese Total. Non stupisce allora che Sarkozy, dopo avere sostenuto il Consiglio nazionale di transizione nella “guerra di liberazione” libica, non fece neppure in tempo a seppellire Gheddafi che si presentò a chiedere il conto, assieme all’amministratore delegato del gruppo Total, Christophe de Margerie.

È evidente che a Parigi stiano particolarmente a cuore gli idrocarburi libici. Perciò, Macron fin dall’inizio si è speso per piazzare la bandierina francese in Libia, facendo prima incontrare all’Eliseo Serraj e Haftar senza neppure una telefonata all’Italia e poi, visto l’evidente fallimento dell’iniziativa, volando a Roma da Gentiloni per abbracciare l’idea di una partnership maggiormente integrata, promettendo addirittura aperture sul tema migranti.

L’Italia nel 2016 è stato il primo investitore europeo in Africa grazie al settore energetico ed ENI, nonostante i disegni della Total, resta l’unica impresa internazionale a estrarre stabilmente in Libia.

Infine, l’ultima spinosa questione. Per comprendere la strategia egemonica francese in Libia dobbiamo allargare lo sguardo all’intero continente africano, dove permangono gli echi della cosiddetta “Francafrique”. Le ex colonie regalano all’Eliseo ancora il 40% del Pil nazionale e il franco Cfa, imposto a 14 Paesi, ha ancora un valore notevole per Parigi. Tanto che, secondo molti, Sarkozy volle far fuori il rais libico perché minacciava di sostituire questa valuta con una moneta panafricana.

Parigi, poi, è presente da più di quattro anni nel Sahel con circa 4.000 uomini (nel contesto della “Operazione Barkhane”) che hanno l’obiettivo di combattere i jihadisti. Ma gli interessi sono anche altri: basti pensare che la Francia importa dal Niger il 40% dell’uranio che utilizza per i suoi reattori nucleari. Il Niger, nel frattempo, è diventato d’interesse cogente anche per l’Italia, visto che qui il Ministero della Difesa dovrà inviare a breve 470 uomini per tappare le falle sulle rotte dei migranti.

Cosa c’entra la Libia in tutto questo? È il tassello mancante della proiezione africana del neo presidente. Qui arriva la più ampia parte dei migranti che transitano dal Niger, mentre nel Fezzan sono presenti numerose organizzazioni terroristiche che, dai porosi confini libici, fanno tranquillamente la spola con i paesi del Sahel. Un problema che Parigi condivide con l’Italia.

Michela Mercuri

 

Articolo pubblicato sul numero 1 di Babilon

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