Nel suo celebre romanzo 1984 lo scrittore britannico George Orwell individuava nell’“Eurasia” una delle tre superpotenze in lotta per il dominio sul mondo al termine della guerra atomica scoppiata negli anni Cinquanta del secolo scorso. Retta da un governo “neobolscevico” sorto dall’implosione del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, nell’immaginario di Orwell l’Eurasia abbracciava l’Europa intera – a eccezione del Regno Unito – spingendosi lungo l’Asia settentrionale fino allo stretto di Bering, la striscia dell’Oceano Pacifico che separa la Russia dagli Stati Uniti.

Nella visione geopolitica del presidente russo Vladimir Putin, la “Grande Eurasia” è destinata a espandere la propria influenza oltre i confini orwelliani: a sud dell’Europa nel cuore del Mediterraneo; in Medio Oriente verso la Siria; in Asia Centrale ed Estremo Oriente, dove l’obiettivo è raggiungere una convivenza win-win con il gigante cinese. Muovendosi nella direzione opposta rispetto a Stalin, Putin sta spostando gli interessi strategici della Russia verso Oriente, riportando in auge il vecchio sogno degli Zar.

La “Grande Eurasia” è destinata a espandere la propria influenza oltre i confini orwelliani: a sud dell’Europa nel cuore del Mediterraneo; in Medio Oriente verso la Siria; in Asia Centrale ed Estremo Oriente, dove l’obiettivo è raggiungere una convivenza win-win con il gigante cinese

È un piano ambizioso, che il presidente russo spolvera con saggia periodicità rinfocolando lo spirito nazionalista del suo elettorato e, al contempo, allontanando lo spettro della crisi economica che attanaglia la Russia da diversi anni a questa parte complice il crollo dei prezzi degli idrocarburi.

Per inquadrare il piano putiniano della “Grande Eurasia” è pertanto necessario tenere conto di una serie di scenari, dai cui sviluppi dipende non solo il futuro della Russia ma anche quello di Asia e Europa, nonché i futuri rapporti con gli Stati Uniti.

 

La ricomposizione del puzzle post-sovietico

Il piano di Putin è partito anni fa con il graduale rientro nell’orbita di Mosca dei Paesi dell’ex Unione Sovietica. La manovra di riallineamento si è concretizzata con la fondazione nell’ottobre del 2014 dell’Unione Economica Eurasiatica (EEU), di cui oggi sono membri oltre che la Russia anche Bielorussia, Kazakhstan, Armenia e Kirgyzistan, con Tagikistan e Uzbekistan a coprire per il momento il ruolo di osservatori. Obiettivo dell’EEU è creare uno spazio economico unificato a cavallo tra Europa e Asia, al cui interno il Cremlino detiene ovviamente un ruolo determinante.

Putin usa questo organismo economico con due scopi: da una parte esercita pressione sul versante est dell’Europa, mettendo sul piatto partnership economiche appetibili per quei Paesi “contesi” con l’UE; dall’altro prova a ritagliarsi un peso negoziale sempre maggiore in Asia, favorendo una fusione su più livelli tra i Paesi dell’EEU e quelli che aderiscono allo SCO (Shanghai Cooperation Organization, l’accordo sulla sicurezza che riguarda principalmente Cina e Russia coinvolgendo però anche gli interessi di altri attori strategici come Iran, Pakistan, India e Afghanistan) e all’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico).

Ponendosi al centro di questa estesissima rete di relazioni diplomatiche e commerciali, Putin coltiva non soltanto i rapporti con Pechino ma anche quelli con le altre grandi potenze dello scacchiere asiatico: in primis Iran, Giappone e India, Stati con i quali sono sempre più solide le partnership nei settori energetico e militare.

 

L’alleanza con la Cina e il rapporto con Trump

Nel corso del forum “One Belt One Road initiative”, in programma a Pechino il 14 e 15 maggio, Putin ha rimarcato il sostegno al piano di cooperazione internazionale varato nel 2013 dal presidente cinese Xi Jinping. La mission cinese prevede la realizzazione di due “Nuove Vie della Seta”: una terrestre, l’altra marittima. Mosca si pone come partner privilegiato nella costruzione del collegamento ferrato che unirà i traffici commerciali che partiranno dalla Cina, transiteranno lungo le ex repubbliche sovietiche fino a raggiungere la Germania.

Per Putin Oriente significa soprattutto Cina, come dimostrano gli ultimi numeri degli scambi bilaterali tra i due Paesi: il fatturato è stato di 69,5 miliardi di dollari nel 2016 (+2,2% rispetto al 2015), mentre nel primo bimestre del 2017 la crescita rispetto allo stesso periodo dello scorso anno è stata del 37,1%.

Buona parte di questo volume d’affari dipende dal gas. Il contratto firmato tra le due nazioni nel maggio del 2014 ha un valore di 400 miliardi di dollari. È prevista una fornitura trentennale di metano (pari a 38 miliardi di metri cubi all’anno) da parte della Russia, con il gas che passerà attraverso un gasdotto lungo 2.200 chilometri che collegherà la Siberia alla Cina orientale.

L’intesa tra Russia e Cina va però oltre l’economia, allargandosi a una strategia geopolitica che fa sentire il proprio peso in ogni angolo del pianeta. Negli anni del raffreddamento dei rispettivi rapporti con gli Stati Uniti durante i due mandati di Barack Obama, Mosca e Pechino hanno infatti fatto valere il proprio potere di veto in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, soffocando ogni tentativo di fuga in avanti del blocco atlantico guidato dagli USA.

La definitiva archiviazione del “Pivot to Asia” di Obama con l’elezione alla Casa Bianca di Donald Trump apre adesso su questo fronte una nuova partita. Dalla nuova conformazione degli equilibri nel triangolo USA-Russia-Cina dipendono gli assetti internazionali dei prossimi anni in tutti gli scacchieri che contano.

Per quanto riguarda nello specifico le relazioni con gli Stati Uniti, all’ombra del Russiagate l’«amore clandestino» tra Trump e Putin potenzialmente potrebbe portare a dei risultati concreti nell’ottica di una maggiore stabilità generale. Due di questi risultati si stanno già vedendo. Nel Pacifico Trump ha chiesto e ottenuto l’appoggio non solo della Cina ma anche della Russia per arginare la minaccia nordcoreana ed evitare un attacco militare nella penisola. In Siria, invece, è stata una telefonata tra Trump e Putin a sdoganare l’accordo di inizio maggio per la formazione di quattro zone cuscinetto. Sempre in Siria, solo attraverso una strategia condivisa da Stati Uniti e Russia sarà possibile stringere definitivamente la morsa attorno allo Stato Islamico e, successivamente, far sedere allo stesso tavolo gli attori nazionali e regionali direttamente interessati (siriani, turchi, iraniani, curdi) alla futura spartizione del paese in aree d’influenza.

Il ruolo in Medio Oriente e nel Mediterraneo

Come detto, nel progetto di “Grande Eurasia” di Putin riveste grande importanza il nuovo posizionamento della Russia in due aree strategiche come il Medio Oriente e il Mediterraneo. In entrambi i contesti, Putin negli ultimi anni ha giocato una partita abilissima. Marciando sulle rovine del finale di mandato di Obama, il presidente russo ha realizzato il sogno degli Zar di garantire alla Russia degli affacci sul Mediterraneo. In Siria, con l’intervento risolutivo a sostegno del governo del presidente Bashar Assad, Mosca ha rafforzato enormemente la propria presenza militare lungo la costa del Paese e oggi dispone della base navale di Tartus, di quella aerea di Humaymim, oltre che della stazione SIGINT (Spionaggio di segnali elettromagnetici) di Latakia. In Libia, ponendosi quale sostenitrice della prima ora del generale della Cirenaica Khalifa Haftar, si è assicurata spazi di manovra nel Mediterraneo impensabili fino a pochi anni fa.

La definitiva archiviazione del “Pivot to Asia” di Obama con l’elezione alla Casa Bianca di Donald Trump apre adesso una nuova partita. Dalla nuova conformazione degli equilibri nel triangolo USA-Russia-Cina dipendono gli assetti internazionali dei prossimi anni in tutti gli scacchieri che contano

In parallelo, dopo aver messo piede in Siria il Cremlino ha assunto saldamente le redini del conflitto: ha garantito la sopravvivenza del governo del presidente Bashar Assad fiaccando la resistenza dei ribelli; ha preso il comando delle operazioni militari contro i gruppi jihadisti presenti in Siria (ISIS e i qaedisti di Jabhat Fateh al-Sham, ex Jabhat Al Nusra); ha sfilato alle Nazioni Unite la titolarità delle trattative che contano sul futuro del Paese.

In questa manovra avvolgente, Putin ha modulato secondo i propri interessi i rapporti con la Turchia. Nell’arco degli ultimi due anni Ankara è passata da “nemico giurato” – dopo l’abbattimento di un jet russo al confine con la Siria – a partner strategico con cui Mosca è tornata a intensificare gli affari (vedi l’inizio dei lavori di costruzione del gasdotto Turkish Stream).

 

I rischi per l’Europa

Turchia e Ucraina sono i due avamposti che la Russia sta tentando di scalfire per estendere la propria influenza in Europa. Tramontata ormai definitivamente la possibilità di veder aderire Ankara all’UE, per il governo turco potrebbe diventare allettante la controproposta russa: adesione all’Unione Economica Eurasiatica e allo Shanghai Cooperation Organization, passaggio quest’ultimo però più remoto poiché confliggerebbe con il ruolo della Turchia all’interno della NATO.

Per quanto riguarda l’Ucraina, a pagare il prezzo del regime sanzionatorio imposto alla Russia per il suo coinvolgimento militare nel conflitto nel Donbass non è solo Mosca ma tutta l’Europa. Basti pensare che il “Made in Italy” in Russia ha subito un forte ridimensionamento nell’ultimo triennio, passando dai 10 miliardi di euro del 2013 ai 6,5 miliardi di euro del 2016.

Indubbiamente rafforzata dalla vittoria alle presidenziali francesi di Emmanuel Macron, l’UE è chiamata adesso a fare i conti con la Russia affrancandosi rispetto ai diktat degli Stati Uniti e riscrivendo una nuova pagina di dialogo con Mosca. Da ciò dipendono la tenuta economica di buona parte dei suoi Paesi membri e le stesse sorti del conflitto in Ucraina, che di certo non potrà essere risolto con il continuo assembramento di truppe NATO lungo i confini dell’Europa dell’est con la Russia.

 

I limiti della Russia

Il primo ostacolo a cui sta andando incontro il piano della “Grande Eurasia” di Putin è l’estrema fragilità della struttura economica della Russia, messa fortemente in crisi negli ultimi anni dal ribasso dei prezzi di petrolio e gas. L’ultimo accordo dei Paesi OPEC (Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio) sul taglio alle produzioni dovrebbe garantire alla Russia una chiusura del 2017 migliore rispetto a quella del 2016 (-0,2%) e del 2015 (-3,7%), con il tasso d’inflazione contenuto al 4%. Ma ciò, unito ai profitti derivati dalle esportazioni di armi (15 miliardi di dollari l’anno), non può bastare per garantire l’aggressività necessaria al progetto espansionistico di Putin.

La dimensione reale a cui la Russia può obiettivamente ambire è dunque quella di nazione al centro della “Grande Eurasia”, ma non come forza divisiva bensì come Paese ponte in grado di favorire proficui collegamenti commerciali ed energetici tra l’Asia orientale e l’Europa. Putin si accontenterà di quanto ottenuto finora?

(Articolo pubblicato il 20 settembre 2017)