Il destino di Idlib

Lo scorso 6 marzo Russia e Turchia hanno raggiunto un accordo per il cessate il fuoco nella regione di Idlib, nel nord-ovest della Siria. L’accordo a cui sono arrivati i presidenti Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan prevede come primo punto una tregua che ha preso avvio alla mezzanotte del 7 marzo; la creazione di un “corridoio di sicurezza” lungo 12 chilometri a nord e a sud dell’autostrada M4, che collega Latakia ad Aleppo; l’inizio a partire dal giorno 15 marzo di pattugliamenti congiunti turco-russi lungo l’autostrada, tra l’insediamento di Trumba (2 chilometri a ovest di Saraqib, città recentemente conquistata dalle forze governative siriane) e quello di Ain al Havr, a sud-ovest di Jisr al Shugour. Idlib, ultima roccaforte dei ribelli siriani, è stata teatro di nuovi combattimenti tra le truppe turche, che sostengono di alcuni gruppi ribelli, e quelle lealiste fedeli al preidente Assad, dalla cui parte è schierata Mosca. Come riferisce Agenzia Nova, l’esercito turco ha installato un nuovo punto d’osservazione nel nord-ovest della Siria. A dare la notizia è il sito d’informazione vicino all’opposizione anti-governativa siriana “Enab Baladi”. Preceduta dall’ingresso di convogli militari turchi, l’installazione si trova nei pressi di Zardana, nel governatorato di Idlib. La regione di Idlib è per i ribelli siriani l’ultima battaglia da vincere in una logica di riconquista e controllo di tutto il territorio siriano. Dopo nove anni di guerra civile, l’emergenza umanitaria dei civili coinvolti continua a perpetrarsi sotto gli occhi di una comunità internazionale inerme.

GLI ATTORI IN CAMPO

Ultimo baluardo dei ribelli contro il regime di Assad, insieme ad Hama, Aleppo e Latakia, la regione di Idlib è di fatto controllata in gran parte dal gruppo jihadista Hay’at Tahrir al-Sham (HTS- Movimento di Liberazione del Levante), una ex branca di al-Qaeda in Siria e considerata organizzazione terroristica.
Pian piano il regime di Bashar al-Assad è riuscito a “liberare” tutte quelle zone in cui erano presenti le forze dell’opposizione. Aleppo, che sin dalla Primavera del 2011 era diventata il simbolo della resistenza, rappresentava il sogno di quei siriani che volevano deporre il regime di Assad (come ci racconta anche il documentario “For Sama”, girato durante l’assedio di Aleppo nel 2016). Il 16 febbraio scorso le forze del regime sono riuscite a conquistare terreno nelle zone a nord e a ovest della città (Hraytan, Anadan e Kafr Hamra) e infine la stessa Aleppo.
Il progressivo ritiro degli USA dal teatro mediorientale ha portato le altre potenze a voler colmare questo vuoto, scontrandosi sul terreno siriano per la supremazia nella regione. E Idlib sembra rappresentare in pieno questo scenario. Idlib è “in ostaggio” – come ci dice il titolo del settimanale siriano Enab Baladi – tra due “garanti”: Erdogan e Putin.
Da un lato la Turchia appoggia l’opposizione moderata già dall’ottobre 2017, il Free Syrian Army, per mettere in sicurezza i propri confini dalla minaccia terroristica delle varie forze jihadiste e tenere sotto controllo la questione dei profughi. Il territorio è considerato cruciale per la sicurezza nazionale.
Dall’altro il Governo di Assad, appoggiato dalle forze russe e iraniane, cerca in tutti i modi di riconquistare i territori controllati ancora dalle forze ribelli. La Russia, ormai da cinque anni coinvolta nel conflitto, cerca di fare gli interessi del suo “protetto”, spingendo per lo scontro finale nella zona considerata the hotspot of terrorism”.

Fig. 1 – Il Presidente russo Putin a sinistra e quello turco Erdogan con un’immagine della provincia di Idlib sullo sfondo. Fonte: Enab Baladi

I TENTATIVI FALLITI DI DE-ESCALATION NELLA REGIONE

Facciamo un passo indietro.
La zona di Idlib è stata oggetto di diversi accordi e tentativi di cessate il fuoco tra la Russia, l’Iran e la Turchia. Si tratta di una delle quattro zone (insieme a Homs-Hama, Daraa’ e Ghouta) in cui gli attori in campo si impegnavano a mettere in atto una de-escalation. Questi accordi si inseriscono nel quadro del processo di Astana (voluto da Iran, Turchia e Russia) per la risoluzione del conflitto siriano, che però ha di fatto autorizzato l’accesso di truppe straniere nel Paese e trasformato la guerra civile in una guerra per procura.

  • A settembre 2018 Putin e Erdogan, dopo un summit bilaterale a Sochi, avevano deciso di mettere in atto misure per ridurre gli attacchi nella regione, creando due aree di influenza divise da una linea demilitarizzata di circa 20 chilometri. Ma le forze del regime violarono ripetutamente l’accordo, sostenendo che Ankara non aveva adempiuto ai suoi obblighi.
  • A settembre 2019, in un summit tra Iran, Turchia e Russia ad Ankara venne sottolineata nuovamente la necessità di una demilitarizzazione di Idlib, allo scopo anche di evitare una tragedia umanitaria. La tregua però non considerava tutti quegli attacchi da parte del regime di Assad – e sostenuti da Mosca – contro la minaccia del terrorismo nel Paese.
  • A gennaio scorso Turchia e Russia avevano firmato un nuovo accordo per il cessate il fuoco nella zona di Idlib, il terzo dunque tra le due potenze riguardante questa regione.

Nelle ultime settimane, però, Erdogan aveva rafforzato la sua presenza sul campo e il suo supporto alle forze ribelli anti-Assad per mandare al regime e alla Russia un segnale molto chiaro: la Turchia non è disposta ad abbandonare i propri interessi nella regione, strettamente legata come già detto alla sicurezza nazionale. Il 27 febbraio 33 soldati turchi sono stati uccisi durante un attacco da parte delle forze del Governo di Damasco a nordovest della provincia di Idlib e questo ha riacceso l’escalation di violenza. La risposta turca non si è fatta attendere: sono stati abbattuti 3 jet dell’esercito siriano e un attacco con i droni ha distrutto postazioni e convogli delle truppe. Al momento si combatte ancora in numerose località.
Nel frattempo a sud della provincia, il regime – supportato dagli alleati iraniani – ha guadagnato terreno verso Saraqeb Jabal Zawiya, controllate dalla componente di opposizione jihadista (HTS), che non gode del supporto diretto turco. Tutte queste offensive sono state messe in atto con bombardamenti aerei su zone densamente popolate da civili, provocando una nuova ondata di flussi migratori e accentuando la già grave crisi umanitaria in corso. Il 24 febbraio, ad esempio, gli attacchi aerei hanno colpito l’Idlib Central Hospital e alcune scuole nella provincia causando 21 morti.

Fig. 2 – La mappa raffigura la regione di Idlib divisa in zone di influenza. Fonte BBC

L’EMERGENZA UMANITARIA

Al destino di Idlib e dell’ultima battaglia per la riconquista della Siria si lega la sorte di tutti quegli sfollati interni che si trovano attualmente nella regione. La maggior parte degli abitanti sono civili scappati nei diversi anni di guerra dalle zone controllate dal regime. Nel nostro Giro del mondo vi avevamo parlato dell’emergenza dei profughi siriani e di come questa risulti, almeno nel breve e medio periodo, difficilmente risolvibile con i rimpatri. La situazione nella zona di Idlib è forse ancora più complicata che nel resto del paese e lo scontro fra le varie potenze rischia di peggiorare le condizioni della popolazione oltre che aumentare la loro dipendenza dagli aiuti.
L’ultimo report di OCHA del 26 febbraio riporta l’emergenza in numeri: dal dicembre 2019, il numero di IDPs (Internal Displaced People) nel nordovest della Siria è di 948mila persone, di cui il 60% sono bambini e il 21% donne. Si tratta della peggiore crisi nella regione dall’inizio del conflitto. La gestione e la capacità di accoglienza dei campi è ormai al collasso e la situazione continuerà a peggiorare con il perpetrarsi delle ostilità.

Fig. 3 – Il numero di IDPs da dicembre 2019 al 23 febbraio 2020 nella regione di Idlib. Fonte: OCHA

LA DIPLOMAZIA FALLISCE PER INTERESSI PIÙ GRANDI

Come analizzato da Andrew Higgins e Carlotta Gall in un articolo del New York Times, è chiaro che la Turchia è disposta a tenere in piedi la roccaforte di Idlib (tenerla sotto il suo controllo e utilizzarla come una zona cuscinetto per la propria sicurezza) e, quindi, mantenere in vita gli ultimi nemici di Assad. Mosca, invece, vorrebbe realizzare la missione del regime di riconquista del territorio siriano, ponendo fine a un appoggio militare costoso in termini di tempo e risorse. E mentre le due potenze continuano a ripetersi che lo scontro diretto non è un’opzione plausibile, è difficile capire quale possa essere l’accordo che preservi gli interessi di “tutti”, interessi che ad oggi sembrano inconciliabili.

La diplomazia sembra vacillare anche tra Turchia ed Europa, circa gli accordi per la questione dei flussi migratori. Il Paese ospita attualmente 3,6 milioni di rifugiati e, dopo le ultime vicende, quest’ultima ha diminuito i controlli ai confini, contravvenendo a quell’accordo sottoscritto nel lontano – ma non troppo – marzo 2016. Erdogan cerca amici dall’altro lato del Mediterraneo per il supporto nella sua missione a Idlib e intimidisce l’Europa sfruttando la sua più grande paura: i flussi migratori. La polizia greca al confine ha respinto i migranti con l’uso di gas lacrimogeni mentre la Bulgaria ha schierato circa mille militari alle frontiere.

Per quanto riguarda la risposta della NATO agli ultimi attacchi avvenuti a Idlib, è stata convocata un’assemblea straordinaria dei membri in cui si è sottolineata l’urgenza di trovare una “Peaceful Solution” tra le forze in campo. Non vi sarà alcun intervento da parte di quest’ultima se il conflitto rimarrà all’interno dei confini siriani (non vi sarebbero interessi contrari) e la Turchia non sia costretta a invocare la legittima difesa collettiva (art. 5). Il destino di Idlib resta dunque in balia di forze contrastanti.

PHOTO: Picture taken on March 6, 2020, shows a damaged house in the town of Binnish, in Syria’s northwestern Idlib province. © Muhammad Haj Kadour, AFP

Altea Pericoli, Il Caffè Geopolitico