La storia non ricorderà l’epoca in cui viviamo come quella del terrore politico e del terrorismo mediatico, perché questi fenomeni sono con sempre maggiore evidenza soltanto la conseguenza di un ben più lacerante accadimento, quello che sta ridefinendo forme di stato e linee di confine obsolete, tanto nelle aree arabo-musulmane – dove è in corso una rivoluzione culturale, oltre che sociale e politica – quanto nei Paesi africani e asiatici, dov’è esplosa in tutta la sua drammaticità la rabbia per l’inarrestabile disequilibrio tra poveri e ricchi. Un fatto, questo, che rende gli affamati ancor più famelici e le classi abbienti sempre più distaccate e ciniche.

Se ancora non appare chiaro chi o cosa abbia portato il mondo contemporaneo a questi sconvolgimenti, più distintamente però si possono osservare le conseguenze. L’insostenibile peso di simili tragedie umane si manifesta in molti modi: ad esempio, nelle deposizioni violente di despoti e dei loro governi, nell’occupazione militare di territori, nella crescita esponenziale dei mercati e dei traffici illegali, nelle fluttuazioni irregolari della bilancia economica e finanziaria, nelle ondate migratorie massificate, nel ritorno ai nazionalismi e alla paura degli altri.

È un’epoca, questa, in cui si alzano muri e si fanno saltare ponti anziché favorire la ragionevolezza del diritto e della diplomazia. E, in mezzo a tutto ciò, si evidenziano fenomeni sorprendenti. Uno di questi è la parabola del Califfato islamico e del suo leader, l’iracheno Abu Bakr Al Baghdadi, il quale ha sostituito nell’immaginario collettivo l’incarnazione e fonte d’ogni male che eravamo abituati a identificare (perlomeno in Occidente) nel principe saudita Osama Bin Laden. La fortuna mediatica che si è saputo guadagnare il sulfureo Califfo dello Stato Islamico – che ha persino rischiato di essere l’uomo dell’anno 2015, secondo l’autorevole settimanale newyorkese Time – è ben superiore a quella del suo predecessore.

Se l’ascesa dello Stato Islamico quale competitor di Al Qaeda è merito tanto delle condizioni storiche che hanno disintegrato le speranze del popolo iracheno di avere uno stato rappresentativo delle sue molteplici componenti sociali, quanto dell’intuizione di Al Baghdadi di costruire da subito uno stato anziché un network di terroristi, l’essersi imposto sul proscenio mediatico è merito invece di una tecnica di comunicazione orribile ma vincente, perché alla portata di tutti. Tecnica che ci ha mostrato le sorprendenti capacità e padronanza dei terroristi odierni nel saper comunicare con efficacia il proprio brand e le proprie idee incendiarie con pochi mezzi e macabra fantasia.

Una campagna d’odio che ha trasformato l’idea di guerra e morte in uno spettacolo. Il mondo dopo lo Stato Islamico è perciò un luogo, reale e virtuale al tempo stesso, dove è stato liberato il seme del male e dove è facile che questo continui ad attecchire, sia pure se in maniera residuale e non permanente. Per le ragioni di cui sopra, e per la predisposizione odierna degli ultimi a preferire la vendetta di fronte alle ingiustizie, a scegliere la collera di fronte all’incertezza e a prediligere la propria morte e quella degli altri a tutto il resto, nella convinzione che ci aspetta un altro mondo.

Ma se questo fosse invece il migliore dei mondi possibili, la soluzione allora si dovrà trovare su questa terra. A meno che non si voglia sostenere che ogni barbara azione terrena sia governata esclusivamente da Dio, senza il libero arbitrio. Ipotesi alla quale preferiamo di gran lunga il pensiero che si tratti piuttosto della sola opera degli uomini. E che, in quanto tale, è destinata a conoscere una fine. Non altrettanto dovrà avvenire per la memoria, che è la sola bussola per il futuro dell’umanità. E il principale motivo per cui si scrivono libri come questo.

Introduzione al libro Il Mondo dopo lo Stato Islamico, edito da Paesi Edizioni.

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