Chi sperava che con l’elezione a presidente di Hassan Rouhani nel maggio del 2013 ci sarebbe stato una diminuzione delle condanne alla pena di morte in Iran, si è dovuto ricredere. A cinque anni dalla sua elezione, e a uno dalla sua conferma per un secondo mandato, in Iran centinaia di persone continuano a essere giustiziate. A confermarlo è il Rapporto 2018 La pena di morte nel mondo, curato dall’Associazione Nessuno tocchi Caino e la cui anticipazione è stata presentata lo scorso 23 maggio a Roma in occasione del convegno La situazione in Medio Oriente e il ruolo dell’Iran.

Dall’inizio della presidenza Rouhani, nel periodo compreso dal primo luglio 2013 al 31 dicembre 2017, almeno 3.288 prigionieri sono andati al patibolo. Dalle 444 esecuzioni effettuate tra luglio 2013 e dicembre 2013, si è passati a 800 in tutto il 2014, 970 nel 2015, 530 nel 2016 e 544 nel 2017. Lo scorso anno tra le vittime vi sono state anche donne (12) e minorenni (6), a dimostrazione del fatto che Teheran continua a violare la Convenzione sui Diritti del Fanciullo nonostante l’abbia ratificata. Il calo del numero di vittime tra il 2016 e il 2017 non deve dunque illudere.

L’Iran rimane il Paese con il più alto numero di esecuzioni pro capite al mondo. E l’ultima risoluzione adottata il 19 dicembre del 2017 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (80 voti favorevoli, 30 contrari e 70 astenuti), in cui viene espressa viva preoccupazione per le numerose violazioni dei diritti umani registrate nel Paese, sono il segnale che il cambio di passo promesso da Rouhani non si è affatto materializzato.

In Iran lo Stato uccide per diversi reati: traffico di droga (257 esecuzioni nel 2017, il 47% del totale), omicidio (233, 43%); moharebeh (vale a dire “fare guerra a Dio”, per cui si può essere puniti anche con l’amputazione della mano destra e del piede sinistro secondo il codice penale iraniano), “corruzione in terra”, rapina ed estorsione (27, 5%), stupro (16, 3%), reati di natura sessuale come adulterio, relazioni immorali e sodomia (5, 1%), reati di natura politica e “terrorismo” (2, 0,3%). È verosimile però, spiega l’Associazione Nessuno tocchi Caino, che persone giustiziate per reati comuni fossero in realtà oppositori politici o appartenenti a minoranze etniche come azeri, curdi, baluci e ahwazi. Per queste persone, spesso accusate genericamente di essere nemici di Allah (mohareh), i processi sono rapidi e severi e si risolvono quasi sempre con la pena di morte.

L’impiccagione è il metodo di esecuzione più utilizzato. Si continua a uccidere anche in pubblico: le esecuzioni sono state almeno 32 nel 2017. Inoltre, secondo i dettami della Sharia chi commette reati può essere puniti anche con torture, amputazioni degli arti, fustigazioni e altre punizioni crudeli disumane e degradanti. «Non si tratta di casi isolati – spiega l’Associazione – e avvengono in aperto contrasto con il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici che vieta queste pratiche ma che Teheran ha ratificato. Migliaia di ragazzi subiscono frustate per aver bevuto alcolici, per aver partecipato a feste con maschi e femmine insieme o per oltraggio al pudore pubblico. Le autorità iraniane considerano le frustate una punizione adeguata per combattere comportamenti ritenuti immorali e insistono perché siano eseguite sulla pubblica piazza come “lezione per chi guarda”».

In generale, i numeri del Rapporto 2018 di Nessuno tocchi Caino sono da considerarsi al ribasso rispetto alla vera entità di quanto sta accadendo in Iran. Una realtà sommersa dal silenzio delle fonti ufficiali, con magistratura, tv e agenzia di stampa e giornali di Stato che danno conto delle esecuzioni sono su ordine del governo degli Ayatollah.