La guerra che Iran e Usa non vogliono combattere

Nelle scorse settimane i toni in Medio Oriente sembrano aver messo da parte la relativa calma di mesi in cui le mosse di Trump contro l’Iran si erano limitate a rimanere nell’ambito della politica. Gli ultimi accadimenti –  i sabotaggi delle petroliere, l’abbattimento di un drone Usa e per finire la cyber offensiva americana – hanno riportato l’attenzione mondiale su questa particolare e delicata zona del mondo. Di conseguenza è cresciuta la paura di un’escalation.

I sabotaggi alle due petroliere nel Golfo dell’Oman e il drone abbattuto nello stretto di Hormuz dalle Guardie della Rivoluzione con un missile terra-aria sono eventi dettati dall’inevitabilità di un confronto voluto dai vertici della Casa Bianca e iniziato con l’invio della portaerei Abraham Lincoln nel Golfo unita a una minacciosa flotta in assetto da guerra. La percezione piuttosto netta è stata che gli Usa abbiano voluto creare un casus belli per giustificare un successivo e decisivo intervento armato. Eppure, l’abbattimento del velivolo, il drone gioiello a stelle strisce, non ha determinato, fortunatamente, lo scenario peggiore. Evidentemente, la prospettiva di un conflitto diretto che potrebbe espandersi a macchia d’olio coinvolgendo tutta la regione ha frenato le ambizioni dell’inquilino del 1600 Pennsylvania Ave, speranzoso forse di poter risolvere la crisi con la sola dimostrazione della forza senza sporcarsi le mani. Giovedì notte della settimana scorsa il presidente americano ha fermato all’ultimo secondo un’operazione militare che avrebbe portato a bombardare tre siti militari dell’Iran. In questo modo Trump ha eviatato di sostenere un’ingente spesa economica e ha escluso la conseguente perdita di vite umane. Dal canto suo, l’Iran vuole fare pressione nei confronti della comunità internazionale affinché quest’ultima intervenga direttamente e scongiuri lo scenario peggiore.

Gli Usa hanno preferito condurre un cyber attacco, spostando quindi il conflitto sul piano informatico, attacco che ha dimostrato però la robustezza dei sistemi difensivi iraniani. Teheran rivendica – attraverso un tweet del ministro delle Telecomunicazioni, Mohammad Javad Azari Jahromi – il fallimento del tentato sabotaggio del controllo dei sistemi missilistici dichiarandosi capace di colpire nuovamente e se minacciato. I venti di guerra, dunque, non sembrano aver smesso di soffiare: il confronto si sposta su altri canali ma le ostilità non si fermano. Nelle ultime ore le parti si sono insultate reciprocamente, ma è il silenzio delle altre super potenze mondiali a fare sempre più rumore, questo rumore è sempre più forte. L’UE, ma non è una novità, si è limitata infatti ad invocare la necessità di usare maggiore moderazione.

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Come sappiamo la questione sul nucleare iranniano pone in allarme da diversi anni l’intera comunità internazionale e la crisi economica appare insanabile a causa dalle sanzioni americane che sono seguite al ritiro del presidente Trump dall’accordo del 2015. Trump punta ora ad azzerare i proventi del petrolio, riprendere quindi il controllo dello scacchiere regionale e a frenare ogni ambizione dello Stato persiano di aumentare la propria influenza. Negli ultimi mesi Washington sta volontariamente mettendo in difficoltà l’attuale regime iraniano, animando un clima di tensione che si era placato negli ultimi anni. Ciò aumenta il malcontento interno. La finalità ultima degli Usa è la “speranza” di causare una rottura capace di provocare un cambiamento del sistema politico e di mettere in crisi il Governo. Il tutto, però, va bilanciato dal gioco di Riyadh, che ha sempre guardato con sospetto la distensione dei rapporti USA – Iran avvenuto durante la presidenza Obama.

La possibilità che la Repubblica islamica voglia intraprendere nell’immediato un piano per sviluppare un programma nucleare a scopi militari appare assai remota. I motivi sono molteplici: in primis ad uscire dall’accordo sul nucleare (Jcpoa) non è stato Hassan Rouhani, bensì il presidente americano che nel 2018 ha annunciato il ritiro unilaterale degli Usa. L’Iran, fino ad allora, aveva sempre rispettato gli impegni portando avanti un dialogo diplomatico per scongiurare la decisione del ritiro Usa. L’Iran – allo stato attuale – non detiene la tecnologia necessaria per l’arricchimento dell’uranio che dovrebbe superare la soglia del 90%.

Il profilo dell’Iran

Parliamo di un Paese che meriterebbe uno studio più approfondito e che putroppo fatica a liberarsi dalla fama di Paese retrogrado ed estremista. In molti sembrano soffrire di una patologia visiva causa di un’ottica miope e ristretta e complice di riprodurre un’immagine ormai stereotipata. L’Iran è una Repubblica Islamica parlamentare e teocratica, un Paese perno degli equilibri in Medio Oriente. Basti pensare all’intervento a favore dei ribelli Huthi nello Yemen, sostegno rivolto contro la coalizione guidata dall’Arabia Saudita – altro attore fondamentale nella regione con cui l’Iran compete per l’egemonia – coalizione che al contrario è impegnata sull’atro fronte e a sostegno del governo yemenita.

Dopo la rivoluzione islamica di Ruhollah Khomeini (1979), il Paese ha dovuto far fronte a numerose sanzioni e iniziative diplomatiche ed economiche da parte delle potenze straniere, in primo luogo da parte degli USA. Negli anni successivi al cambiamento dell’assetto istituzionale, il nuovo Iran si è visto quindi obbligato a ricostruire la propria economia da zero non avendo più l’appoggio dell’Occidente e contando numerosi nemici lungo i propri confini. L’Iran, inoltre, porta sulle spalle, e con una certa fatica, l’eredità di un passato glorioso che ha determinato un’accesa rivalità di natura politico – economico – militare con i propri vicini, una rivalità alimentata progressivamente nel corso dei secoli anche da una visone differente dell’Islam. Tutto questo ha portato Teheran all’isolamento, sempre più importante e dannoso. In aggiunta, gli eventi del ’79 e il programma nucleare (che ricordiamo sempre stato portato avanti per scopi civili), hanno caratterizzato un progressivo deterioramento delle relazioni a livello internazionale (al di là dei recenti rapporti commerciali di natura opportunistica con Cina, India e Russia e gli obiettivi strategici del Giappone).

L’Iran di oggi, dunque – a quarant’anni dalla Rivoluzione – si ritrova vittima di facili semplificazioni, presupposto forse inevitabile per un Paese che ha vissuto delle trasformazioni così radicali in meno di cinquant’anni. L’Iran è passato dall’era degli Shāh (contraddistinta da eccessi, dal lusso, dalle riforme che puntavano ad occidentalizzare forzatamente il Paese ma a danno della popolazione più povera), a una Repubblica Islamica guidata da autorità religiose guidate da Khomeini, che pose fine all’era monarchica e adottò delle misure estremamente restrittive capaci di mutare ancora una volta il volto dell’Iran.

Si deve necessariamente comprendere che – a prescindere dalla attuale struttura dello stato iraniano di oggi – il popolo gode di una fortissima identità capace di superare ogni congiuntura storica, come ha già avuto modo di dimostrare in passato. L’atteggiamento assunto da Washington per modificarne l’assetto non potrà mai avvenire senza la volontà della società civile iraniana. La società civile iraniana non dovrà essere minacciata, ma dovrà essere aiutata a diminuire le problematiche provocate dai limiti strutturali cui si ritrova cronicamente ingabbiato il Paese.  È essenzialmente nella società civile che possiamo comprendere il moderno Iran. Proprio questa più volte nella storia si è mostrata protagonista delle vicende politiche del Paese, rappresentando la vera forza trainante, ma ora purtroppo si trova ora divisa dalla vasta e frastagliata pluralità di categorie e classi che rivendicano ciascuna i propri bisogni specifici.