Almeno 235 morti il bilancio dell’attacco a una moschea Sufi nel Sinai, vicino al capoluogo settentrionale della penisola, Al-Arish. Un commando di trenta terroristi a bordo di quattro fuoristrada ha lanciato esplosivi e poi ha aperto il fuoco nella moschea Al-Rawda di Bir al-Abed. Dietro c’è con ogni probabilità la mano autografa dello Stato Islamico, qui conosciuto come ISIS Wilayat Sinai, che considera il Sufismo (cioè la corrente mistica dell’Islam) come eretica a pari dello sciismo e degli altri “infedeli”.

Il colpo più audace del gruppo sino all’odierna strage in moschea, era stato l’abbattimento del volo Airbus 321 della compagnia russa Metrojet avvenuto il 31 ottobre 2015, mentre l’aereo partito da Sharm el-Sheikh si era alzato in volo verso San Pietroburgo. Prima di ciò, le cellule jihadiste del Sinai si erano limitate a sferrare attacchi contro le chiese dei cristiani copti, ma soprattutto contro le istituzioni e le forze di sicurezza egiziane (più di 600 morti), ufficialmente per vendicare le oltre 1.400 vittime della repressione esercitata da Al Sisi contro i sostenitori della Fratellanza Musulmana. Ma da quel momento, hanno alzato il tiro e la posta in gioco. E ora hanno colpito anche un luogo di culto islamico.

Di fronte all’ennesima strage nella penisola del Sinai, la domanda che molti si pongono e a cui né le forze di sicurezza egiziane né analisti ed esperti dell’area hanno saputo dare risposte certe, è qual è l’entità, numerica e militare, della minaccia dello Stato Islamico in Egitto.

ISIS Wilayat Sinai, sigla nota fino al novembre del 2014 come Ansar Beyt al-Maqdis (formazione che era nata nel 2011 durante la rivoluzione che portò alla caduta dell’ex presidente Hosni Mubarak), oggi disporrebbe di una forza militare non superiore alle 2mila unità, sotto la guida del religioso egiziano Abu Osama al-Masry, un islamista formatosi all’Università Al Azhar del Cairo.

Si tratta però evidentemente di una stima sottodimensionata, considerata la portata degli attacchi compiuti negli ultimi due anni dal gruppo jihadista, indirizzati inizialmente contro le istituzioni e le forze di sicurezza egiziane ma concentratisi, da qualche mese a questa parte, contro civili e contro le minoranze religiose come quella dei copti.

L’affiliazione a ISIS ha permesso ai jihadisti del Sinai di compiere un enorme balzo in avanti, dovuto non tanto a rinforzi o rifornimenti di armi ricevuti dalle roccaforti del Califfato in Siria e Iraq, quanto piuttosto dai benefici che Wilayat Sinai ha potuto trarre da questa operazione in termini di immagine. L’utilizzo del brand dello Stato Islamico ha infatti favorito l’afflusso di centinaia di miliziani che continuano ad arrivare nel Sinai eludendo i controlli al confine tra l’Egitto e i territori palestinesi.

 

Il modus operandi dell’ISIS in Sinai

 

Per radicarsi in questo territorio, Wilayat Sinai ha utilizzato un modus operandi proprio di altri gruppi jihadisti affiliati allo Stato Islamico operativi tra Nord Africa (Libia, Algeria e Tunisia), Medio Oriente (Yemen), Asia Centrale (Afghanistan) e Sud-Est asiatico (soprattutto nelle Filippine e in Indonesia). La formazione di Abu Osama al-Masry ha puntato sulla ricerca di alleanze con tribù e gruppi islamisti locali, sfruttando a proprio favore il risentimento dei Fratelli Musulmani nei confronti dei militari, amplificatosi con le uccisioni e gli arresti in massa seguiti al golpe che nel luglio 2013 ha portato alla destituzione del presidente islamista Mohammed Morsi.

Al contempo, la condivisione del proprio marchio con i jihadisti del Sinai ha avuto effetti benefici anche per il Califfato, principalmente per due motivi. Il primo è che, ponendo il proprio cappello su Wilayat Sinai, lo Stato Islamico è riuscito a posizionarsi anche nel cuore del Mediterraneo, in un punto di congiuntura di altissimo valore strategico tra i teatri di tensione del Nord Africa e i territori palestinesi. Inoltre, l’operazione ha fruttato a ISIS anche in termini di propaganda, perché ha portato l’organizzazione di Abu Bakr Al Baghdadi a qualificarsi come la più tenace forza di contrapposizione terroristica nei confronti di un regime militare che, a sua volta, reprime con la violenza centinaia di migliaia di musulmani forte del sostegno trasversale della comunità internazionale. Nell’insieme, questi fattori hanno rafforzato l’immagine globale dello Stato Islamico, permettendo ad Al Baghdadi di tenere vivo un fronte alternativo a quello siro-iracheno.

 

Perché Al Sisi sta fallendo nel Nord del Sinai

 

Nel difendere la sua strategia nel Nord del Sinai, Al Sisi ha utilizzato testuali parole: «Siamo come un chirurgo che vuole debellare il pericolo senza perdere il paziente». Ma la sua strategia militare contro lo Stato Islamico finora si è rivelata fallimentare e nel “curare” il Sinai, il rischio per Al Sisi è di perdere il controllo totale dell’Egitto.

Lo stato d’emergenza, la politica dei rastrellamenti casa per casa, le case dei presunti fiancheggiatori dei jihadisti demolite, il trasferimento forzato di migliaia di egiziani in un’area adibita a zona cuscinetto al confine con la Striscia di Gaza e parzialmente in accordo con Israele, stanno mettendo i militari contro una parte della popolazione, contribuendo a una iper-radicalizzazione della società locale.

In questo contesto, la minoranza dei cristiani copti (il 10% di una popolazione nazionale pari a 90 milioni di abitanti) è un vaso di coccio tra vasi di ferro, tra le vittime designate della ritorsione degli ambienti islamisti radicali e jihadisti, essendo sempre stata accusata di connivenza con le dittature militari che si sono succedute al potere dalla metà degli anni Cinquanta del Novecento a oggi.

Al Sisi continua a trasmettere forza all’esterno. Sa di essere l’unico interlocutore credibile su cui l’Occidente, così come la Russia, possono puntare per evitare il caos nel Mediterraneo e sperare in un risoluzione della crisi libica. Anche il presidente degli Stati Uniti Donald Trump lo aveva definito «un tipo fantastico», facendo capire che il gelo delle relazioni tra USA ed Egitto dei tempi di Obama è destinato a finire e che Washington riprenderà a versare al Cairo aiuti economici. Ma l’autorevolezza del Cairo oltre confine non corrisponde a una solidità interna. E lo Stato Islamico è solo una delle spie di questo malessere e dello stato di cose.