uzbekistan

Il giorno dopo l’attentato di New York City, quando un camion lanciato contro la folla ha fatto 8 vittime e numerosi feriti a Manhattan, l’America s’interroga sull’origine e sulle ragioni che hanno spinto Sayfullo Habibullaevic Saipov – cittadino uzbeko con passaporto americano dal 2010 residente a Tampa, Florida – a uccidere in nome dello Stato Islamico.

Oltre alla complicità nell’attentato di altri connazionali (che l’FBI sta ricostruendo in queste ore) e al netto delle sue motivazioni personali, le radici dell’odio degli islamisti uzbeki nei confronti dell’Occidente e di tutto ciò che non è Islam hanno origine nella loro terra, dove la religione islamica è stata repressa prima durante il lungo periodo dell’Unione Sovietica e poi sotto la dittatura del presidente Karimov. Oltrefrontiera ricostruisce un quadro del paese asiatico, che condivide regolarmente con la Corea del Nord gli ultimi posti delle classifiche mondiali per quanto riguarda democrazia, corruzione e libertà di stampa.

 

La fine dell’URSS

Tutto finì la sera di natale del 1991. Erano passate da poco le 18 quando il comandante della Guardia Presidenziale, ricevuta una chiamata diretta dal presidente della repubblica russa Boris Yeltsin, ammainò per l’ultima volta la bandiera rossa dell’Unione Sovietica e issò sulle guglie del Cremlino il tricolore della Russia. Al momento della telefonata, Yeltsin era l’unica autorità legalmente riconosciuta a Mosca. Alle 18, infatti, il presidente Mikhail Gorbaciov aveva dato le dimissioni da presidente dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

Con questo gesto simbolico si concludeva l’annus horribilis del comunismo sovietico, e iniziava un ventennio di instabilità e di tensioni interetniche in quella che un tempo era una grande superpotenza. Per centinaia di anni sotto gli zar, le “Russie” erano state tenute insieme soltanto col pugno di ferro dell’autorità centrale. Le decine e decine di nazionalità che componevano l’impero non avevano mai dato cenno di voler procedere verso l’integrazione: lingue, religioni, tratti somatici si mescolavano senza integrarsi, senza formare un’unica nazione.

Quando, dopo la morte di Lenin, il georgiano Joseph Stalin prese il potere assoluto, si rese conto immediatamente che uno dei pericoli maggiori che correva la giovane Unione Sovietica non veniva dalle trame degli imperialisti britannici o dalle velleità di revanche di una smidollata aristocrazia. I pericoli reali venivano dal frazionismo all’interno del partito comunista bolscevico e dal riemergere delle nazionalità che, sotto la spinta degli ideali rivoluzionari, ritenevano di potersi di nuovo esprimere all’interno del mosaico sovietico.

Per fronteggiare il rischio di disgregazione, Stalin negli anni Trenta agì da par suo. Mentre con le durissime purghe negli stessi anni liquidava ogni traccia di resistenza all’interno del partito, e mentre costringeva l’intero apparato produttivo sovietico a passare non solo metaforicamente dall’aratro di legno al carro armato T-34, organizzò la più grande e spietata ondata di migrazioni forzate all’interno dei confini dell’Unione Sovietica, riuscendo con successo a eliminare il problema delle nazionalità.

Queste non vennero integrate, ma disperse e mescolate forzatamente. I tatari della Crimea andarono al Nord. I ceceni vennero spostati sul Don al posto dei cosacchi. Georgiani, abcasi, tagiki e mongoli vennero tutti dispersi nell’immenso arcipelago industriale che in poco più di un decennio modernizzò l’Unione Sovietica.

Trent’anni di stalinismo e altri trenta di comunismo tradizionalista non hanno però spento in alcun modo i sentimenti nazionali e nazionalistici, compressi e coartati all’interno di un’“Unione” che si sarebbe rivelata essere solo di facciata. Non solo non si sono spenti i sentimenti nazionali, ma non si sono attenuati gli odi interetnici che soltanto i metodi aspri del partito e della polizia segreta erano riusciti a tenere sotto controllo.

 

L’Islam radicale in Uzbekistan

L’Islam, in questo, gioca un fattore decisivo. In Uzbekistan la popolazione è per l’88% musulmana e per il resto ortodossa. Inglobato nell’orbita russa a fine Ottocento, nonostante la resistenza opposta all’Armata Rossa dopo la Rivoluzione bolscevica, il paese divenne una Repubblica socialista nel 1924 e pertanto la religione divenne marginale nel quadro sociale imposto dallo stato. Ma la questione era soltanto sopita e sarebbe riesplosa negli anni Novanta, anche a causa della povertà incipiente. Fino a che fu in vigore il sistema sovietico, infatti, l’Uzbekistan fu molto indebolito in ambito economico e lo sfruttamento intensivo delle risorse idriche e agricole ne impoverirono l’ambiente senza migliorare in alcun modo lo status della popolazione contadina.

Nel 1991, con il crollo dell’URSS, il paese cambiò volto. L’allora capo del Soviet uzbeko Islom Karimov decretò unilateralmente l’indipendenza del Paese quello stesso anno e fu nominato presidente con pieni poteri, come stabilito dalla Costituzione del 1992.

Da allora è rimasto ben saldo al potere, organizzando elezioni-farsa, vietando ai gruppi di opposizione di partecipare alla vita politica (benché ufficialmente l’Uzbekistan sia una democrazia pluripartitica), introducendo un vero e proprio stato di polizia e tenendo sotto controllo i mass-media e ogni forma di dissenso.

Nella regione sono così riemersi gruppi islamisti che tentano di rovesciare il governo per imporre la Sharia. Tra i più attivi, figurano il Movimento islamico dell’Uzbekistan (IMU), Al Qaeda, l’Unione della Jihad islamica e il Movimento islamico del Turkestan orientale, che spesso effettuano rapimenti, omicidi e attentati kamikaze anche a danno di cittadini stranieri. Dalla fine degli anni Novanta, l’attività di tali gruppi si è intensificata con l’appoggio e i finanziamenti forniti da Osama Bin Laden e ha trovato terreno fertile soprattutto nella valle di Ferghana.

Nel 1999 gruppi militanti islamici hanno persino cercato di rovesciare il governo: fallito il tentativo, si sono susseguiti attentati terroristici soprattutto lungo i confini con l’Afghanistan e il Tajikistan. Nel 2001 Karimov ha offerto una base ai caccia anglo-americani per l’offensiva statunitense in Afghanistan e il suo governo partecipa, da allora, alla lotta contro il terrorismo internazionale. Anche se nel 2005 la repressione nel sangue di diverse proteste scoppiate nella città di Andijan è costata al presidente l’accusa di violazione dei diritti umani, l’embargo da parte dell’Europa e la sospensione dei prestiti da parte della Banca Mondiale. Le relazioni con l’occidente sono state ripristinate solo negli ultimi anni, per via dell’importanza strategica dell’Uzbekistan nelle operazioni anti-terrorismo nella regione e anche per l’esigenza europea di trovare risorse energetiche alternative in Asia centrale.

 

Una regione inquieta

Molti attentati si sono verificati in diverse regioni dell’Uzbekistan in questo periodo: in particolare nel 2004, nel 2005 e nel 2009. Numerosi militanti del Movimento Islamico dell’Uzbekistan (IMU) nel 2014 hanno poi giurato fedeltà ad Al-Baghdadi andando di fatto ad ingrossare le fila dell’ISIS, al punto da diventare uno dei suoi apparati più importanti, grazie al numero di miliziani impiegati e alle abilità tattico-militari dimostrate sul campo in Siria.

Il governo ha risposto vietando i viaggi in alcune parti del Paese come misura di sicurezza, e in particolare nelle province della regione di Surkhandarya. Episodi di violenza si verificano anche nella zona di montagna al confine tra Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan, dove alcuni tratti frontalieri sono addirittura stati chiusi per ragioni di sicurezza, come il confine tra l’Uzbekistan e il Kazakhstan, chiuso lungo la strada tra Tashkent e Samarcanda.

Le zone vicino al confine con il Tajikistan sono, inoltre, minate. Neanche la frontiera con l’Afghanistan è considerata meno instabile, proprio per le tensioni con i militanti islamici e il supporto dato dall’Uzbekistan alla lotta al terrorismo. Oggi, l’alto controllo operato dal governo e dalle forze di polizia su assembramenti e gruppi di dissidenti è il solo strumento che il governo di Tashkent conosce per soffocare le tensioni sociali alimentate dall’Islam radicale.

In seguito alla morte del presidente Karimov (Settembre 2016), l’ex primo ministro Shavkat Mirziyoyev ha vinto le elezioni presidenziali nel dicembre dello stesso anno, dichiarando che il suo governo opererà in continuità con la politica del suo predecessore.