Dopo l’annuncio del presidente degli Stati Uniti Donald Trump del ritiro dei circa duemila soldati americani nella parte nord orientale della Siria, i curdi hanno deciso di chiedere aiuto al governo siriano di Assad e alla Russia. L’esercito siriano è stato “invitato” a prendere il controllo di Manbij, la città a maggioranza araba situata nel nord-est del Paese e conquistata nel 2016 dalle Unità di Protezione Popolare (YPG).

Senza ombra di dubbio la Russia è quindi divenuta oggi la grande potenza esterna che sta esercitando il peso più significativo sui destini della Siria, costringendo a un faticoso inseguimento Turchia da una parte e Iran dall’altra. La proposta dell’YPG è stata accolta, dopo un’attenta riflessione, con favore da Assad, il quale ha inviato il suo esercito per proteggere la città dalla Turchia che adesso, almeno a parole, preferisce vedere Manbij in mano siriana (e protezione aere russa) piuttosto che sotto il controllo dei curdi.

La nuova situazione strategica può probabilmente servire a bloccare le velleità di avanzata turca in Siria. Senza una presenza delle milizie dell’YPG lungo i suoi confini meridionali, Ankara – che rimane, nonostante tutte le sue contraddizioni, un Paese membro della NATO – non ha più “giustificazioni” per entrare in territorio siriano e violare le risoluzioni ONU. Come non ricordare le due operazioni – con nomi falsamente “buonisti” ma crude per l’alto numero di vittime causate – chiamate Scudo dell’Eufrate (agosto 2016), e Ramoscello d’Ulivo (gennaio 2018). A beneficiare di questa situazione potrebbero dunque essere i curdi che, pur avendo rinunciato a Manbij, controllano ancora circa un terzo di quella che era la Siria, mantenendo una forte presenza nel nord-est, in una fascia di territorio delimitata tra Kobane, Raqqa, Deir Ezzor fino al confine con l’Iraq.

La situazione della Siria, oggi

A inizio 2019 la Siria è suddivisa in cinque grandi aree di interesse. La prima, pari al 70% del territorio, è sotto il controllo del governo di Damasco, sostenuto sia dalla Russia che dall’Iran. La seconda è Afrin, nel nord-ovest, e attualmente è nelle mani dell’esercito di Ankara e di unità di ribelli sostenute economicamente dal governo turco che, come noto, dall’inizio del conflitto ha sempre appoggiato il fronte anti-Assad. La terza è il Rojava, ossia il territorio sotto il controllo delle milizie arabo-curde FDS (Forze Democratiche Siriane), pari a circa un terzo della Siria. La quarta è Idlib, roccaforte ancora nelle mani dei miliziani jihadisti di Al Nusra e di altri gruppi di ribelli appoggiati dalla Turchia, intorno alla quale era stata istituita da Ankara e Mosca una zona demilitarizzata. Infine, ci sono alcuni villaggi nella provincia meridionale di Deir Ezzor che resta ancora in parte sotto il controllo di ISIS (lo Stato Islamico controlla oggi il 2% del territorio che aveva nel momento di massima espansione, ndr).

Le possibili mosse di Damasco, Ankara, Teheran e dei curdi

Molti analisti concordano sul fatto che in futuro prossimo sia Damasco sia Mosca potrebbero avere la volontà di acquisire nuovamente il controllo della regione di Idlib, allontanando le forze di occupazione turche. Tutto questo indica che lo scenario siriano è sensibilmente cambiato quando, nell’estate del 2016, Ankara ha ricucito i rapporti con Mosca, dopo il grave episodio dell’abbattimento di un jet russo il 24 novembre 2015. Dopo quell’episodio, di fatto, Erdogan è stato costretto a fare un passo indietro accettando le condizioni di Putin per rimanere in Siria.

Certamente la Russia sa di non potersi fidare di Ankara. Se non ottenesse quanto spera dall’alleanza con Mosca e Teheran, la Turchia potrebbe infatti voltare faccia al Cremlino e, da Paese membro della NATO, “invocare” l’articolo 5 del Trattato qualora ritenesse di sentirsi minacciata.

Per quanto riguarda nella fattispecie la posizione di Assad, il presidente può oggi vantare il pieno controllo sulla maggior parte del territorio siriano, e potrebbe ora gravitare con le sue forze migliori nell’area di Deir Ezzor dove è annidata la principale sacca di resistenza terroristica. Questa enclave rappresenta sia un pericolo per la stabilità di tutto il territorio sotto il controllo governativo, sia una spina nel fianco all’integrità di quel che resta della Siria di un tempo.

L’Iran in tutto quest’attivismo politico, militare e diplomatico continua a seguire i suoi interessi strettamente legati ad assicurare la continuità geografica dei territori a controllo sciita da Teheran al Mediterraneo, passando per le coste siriane controllate da Assad e per quelle del Libano controllate da Hezbollah.

Più incerta, invece, è la sorte del Rojava curdo. I suoi abitanti e le milizie dell’YPG vorrebbero procedere con un accordo per un’autonomia da Damasco. E non è detto che, una volta terminati i combattimenti e avviato un credibile tavolo di pacificazione, le loro aspirazioni diventino realtà. In generale, una volta terminata la guerra bisognerà “scrivere” il futuro “di pace” per il popolo curdo. La Turchia farà di tutto per evitare una soluzione simile al Kurdistan iracheno ma il presidente Putin, al quale Trump ha in estrema sintesi e semplificando al massimo “passato la mano”, se riterrà questa soluzione opportuna ha probabilmente le giuste capacità di convincimento. Erdogan, che si confronta in questi giorni con una grave crisi economica interna al suo Paese, o si adegua cercando di portare a proprio favore almeno qualche decisione sui confini e sulle autonomie, o tenta un altro rischioso “voltafaccia” a Putin cercando di coinvolgere la NATO e quindi USA ed Europa. Difficile però credere che Erdogan si schiererà apertamente contro Putin. Esempio evidente della capacità strategica del capo del Cremlino è il modo in cui, dopo un incontro trilaterale a Ginevra, abbia convinto il presidente turco a far dichiarare al suo ministro degli Esteri Çavuşoğlu che Ankara è disposta ad accettare che Assad continui a essere il presidente della Siria se vincerà le prossime elezioni.

Il futuro passa per Astana e per Mosca

Russia, Iran e Turchia si sono più volte riuniti per discutere del futuro della Siria e il prossimo colloquio è atteso ad Astana. In questa sede si dovrà anche affrontare il problema del termine del mandato dell’inviato speciale dell’ONU, l’italiano Staffan de Mistura, e l’inizio delle attività di mediazione del norvegese Geir Pedersen.

«Sono lieto di informarvi della mia intenzione di annunciare la nomina di Geir Pedersen come mio inviato speciale per la Siria, il quale, nel prendere questa decisione, ho consultato ampiamente, insieme al governo della Repubblica Araba Siriana». «Pedersen sosterrà i partiti siriani facilitando una soluzione politica inclusiva e credibile che soddisfi le aspirazioni democratiche del popolo siriano» ha scritto il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres.

Da sottolineare che il 27 e 28 ottobre scorsi i leader di Turchia, Russia, Francia e Germania si erano incontrati a Istanbul per provare a trovare il modo di concordare una tregua permanente nell’ultimo grande baluardo ribelle di Idlib e, inoltre, che lo scorso 18 dicembre Russia, Turchia e Iran avevano respinto la proposta avanzata delle Nazioni Unite di modificare la composizione del comitato che si occupa di redigere una nuova Costituzione per la Siria.

In particolare, la Russia ha respinto cinque nomi che De Mistura avrebbe voluto aggiungere alla lista per costruire, a suo parere, un comitato che fosse credibile ed equilibrato. Infatti, secondo la ormai poco consistente e parzialmente sconfitta opposizione siriana, il comitato proposto da Russia, Iran e Turchia non è politicamente equilibrato e, come logico aspettarsi, tenderà a tutelare l’uomo forte nell’area, vale a dire il presidente Assad “amico” di Mosca.

Il lavoro della commissione, composta di 150 membri, è fondamentale per andare a nuove elezioni nel 2019 e per dare il via a un processo di pace che dovrebbe incoraggiare milioni di rifugiati a fare ritorno in Siria.

Quali possibilità di risveglio per ISIS?

Infine, l’imminente possibile ritiro delle truppe americane dai territori siriani sotto loro protezione e giurisdizione lascerà fuori possibilità di credibile controllo migliaia di terroristi dell’ISIS e membri delle loro famiglie che ora sono prigionieri nelle carceri nell’area sorvegliata da milizie curde e truppe americane. La maggior parte di loro è ricercata dai governi dei Paesi di cui sono originari. Se torneranno in libertà, saranno una nuova ulteriore minaccia per la regione e per tutta l’Europa. Si tratterebbe di più di 2.700 terroristi combattenti che si erano trasferiti nei ranghi dell’ISIS all’apice della sua espansione territoriale. In seguito sono stati catturati sul campo di battaglia o si sono arresi alle forze sostenute dagli USA.

Il problema è che quasi tutti, se non tutti, i governi che hanno supportato con entusiasmo le operazioni belliche guidate dagli Stati Uniti contro l’ISIS, si rifiutano adesso di rimpatriare i loro cittadini, motivando la decisione con il rischio che possano diffondere un’ideologia radicale o radicalizzare altri delinquenti loro seguaci in carcere.

L’amministrazione curda locale non vuole la responsabilità di sorvegliare e sfamare così tanti militanti e non ha la capacità di processare terroristi accusati di crimini di guerra e di altri abusi. Secondo Abdulkarim Omar, che dirige il dipartimento per gli affari esteri curdo, si tratta di «un numero enorme; alcuni di loro sono persone molto pericolose, e vivono in carcere in una zona molto instabile».

Difficile credere che Putin o che il suo alleato regionale Assad prendano l’iniziativa e si assumano l’onere di gestire questi assassini addestrati alla guerriglia. Sarebbe un favore grandissimo all’Occidente che li ha “generati” e che ora dovrebbe trovarsi a gestirli senza una norma legislativa adeguata, come accade in Italia.

Dopo la guerra civile in corso da sette anni in Siria, si intravede una piccola luce in fondo al tunnel e una soluzione politica non è più una lontanissima chimera. Ma solo se, per una volta, Erdogan si mostrerà realmente credibile e farà nuovamente un altro passo indietro al cospetto di Putin.

 

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