Dal 1911, quando l’Italia scese in guerra contro l’impero ottomano e strappò al Sultano di Costantinopoli non solo le isole del Dodecaneso ma anche i tre Wilayat (province) della Tripolitania, del Fezzan e della Cirenaica, per un secolo i rapporti tra i due paesi sono stati, per usare un eufemismo, tutt’altro che pacifici. I libici non ci hanno mai amato, anzi ci hanno combattuto e per questo hanno dovuto subire un’occupazione segnata dalla repressione e dalle stragi.

Tripoli non è mai stata il «bel suol d’amore», come cantavano i bersaglieri e gli italiani che vennero fatti emigrare su quella che il regime fascista definiva la “Quarta sponda”. Se ne resero conto amaramente quando nel 1970, a pochi mesi dall’assunzione del potere, il Colonnello Gheddafi espulse in blocco tutta la colonia italiana, oltre 20mila persone che vennero costrette a lasciare il paese con un preavviso di pochi giorni e dovettero abbandonare in Libia tutti i loro averi.

Durante i quarant’anni del suo regime, Gheddafi non ha mai mancato di sottolineare il suo rancore verso l’Italia, rifiutando qualsiasi compensazione per i beni confiscati agli italiani espulsi e mantenendo in vigore la festa nazionale «della vendetta» contro l’Italia, che fino al 2011 è stata celebrata ogni 7 ottobre.

L’impegno del presidente del consiglio Berlusconi che tentò tenacemente di riaprire la “Quarta sponda” al commercio e all’industria del nostro Paese, ha portato Italia e Libia alla firma di un trattato di amicizia che prevedeva il pagamento della somma di tre miliardi di euro a titolo di risarcimento per i danni causati dall’occupazione italiana. A margine delle trattative ufficiali, si tennero colloqui riservati durante i quali le autorità di sicurezza di Tripoli s’impegnarono a bloccare con ogni mezzo, anche con la forza, la spinta migratoria verso l’Italia.

Gheddafi, durante la sua visita a Roma del 2009 si vantò pubblicamente di essere riuscito a bloccare due milioni di migranti, chiudendo tutti i varchi che dall’Africa centrale portavano verso le spiagge della Tripolitania e della Cirenaica. Che quelle del Colonnello non fossero vanterie, il nostro Paese l’ha ben compreso quando, dopo aver contribuito ad abbattere il suo regime nel 2011, ha visto crescere a dismisura i flussi migratori dalla Libia all’Italia.

Quando poi, a un secolo esatto dalla prima invasione, siamo tornati a bombardare la Libia in compagnia di francesi e inglesi, non ci siamo resi conto che destabilizzare la Libia avrebbe significato aprire un vaso di Pandora i cui contenuti esplosivi hanno prodotto e producono ancora danni in tutto il sud del Mediterraneo.

Il primo risultato della destabilizzazione della Libia, oltre al caos politico e amministrativo in cui è precipitato il paese, si è visto dopo il linciaggio del Colonnello e l’abbattimento del suo regime: dalle coste libiche è ripreso un flusso di migranti che in pochi anni ha portato sulle nostre coste centinaia di migliaia di africani, finalmente “liberi” dalle maglie tessute dalle forze armate libiche. Le quali si sono affidate alle tante milizie nate dalla “prima- vera libica” (mai definizione fu più sbagliata) per affrontare nell’anarchia più totale il pericoloso viaggio verso l’Europa.

Un altro effetto, tutt’altro che secondario, della rivoluzione del 2011 è stato il ritorno della Libia nelle condizioni esistenti prima dell’occupazione italiana del 1911. Il paese è tornato a dividersi a suon di cannonate nelle tre Wilayat stabilite dall’amministrazione turca: Fezzan, Tripolitania e Cirenaica. Regioni etnicamente, socialmente ed economicamente diverse che i turchi si erano ben guardati dall’unire forzosamente e che gli italiani avevano invece riunito in uno stato nazionale artificiale, che al primo serio scossone è andato in frantumi.

Tutto questo, compreso lo stallo nei combattimenti che non hanno visto prevalere un’unica parte, induce a ritenere che manchi la volontà stessa di farne un solo paese. La Libia che abbiamo conosciuto è durata un secolo esatto, ma difficilmente tornerà a essere uno stato unitario. Prima ce ne rendiamo conto, prima potremo affrontare il diluvio del post Gheddafi.

Articolo pubblicato su Babilon n° 1