«La Libia deve rappresentare un interesse nazionale per l’Italia. Per troppi anni ci siamo affidati al multilateralismo, lasciandoci coprire troppo dall’azione dell’ONU. Adesso è il momento di agire in modo molto più diretto e risoluto». Secondo Giulio Terzi di Sant’Agata, ministro degli Affari Esteri nel governo di Mario Monti tra il 2011 e il 2013, parte da un cambiamento di strategia trasversale il rilancio dell’impegno dell’Italia per la risoluzione del conflitto libico.

In cosa abbiamo sbagliato finora?

Tra il 2013 e il 2016 abbiamo deciso di affidarci unicamente alle Nazioni Unite, preoccupandoci unicamente del contenimento delle ondate migratorie sul Mediterraneo. Nel frattempo altri si sono mossi. Paesi come la Russia e la Francia, pur essendo membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, hanno agito in modo disinibito e talvolta cinico, puntando su canali bilaterali per affermare i loro interessi nazionali. Non avremmo mai dovuto lasciare questi spazi scoperti.

Ci sono ancora margini per recuperare il terreno perduto?

Per troppo tempo Roma ha puntato tutto solo sul governo di Fayez Al Serraj. Il punto adesso è far ripartire un processo inclusivo che tenga conto dei reali poteri di forza in Libia. È positivo il fatto che si sia aperto un canale diretto tra il nostro governo e rappresentanti di Bengasi e dell’entourage del generale Haftar. Più in generale, però, è mancata la capacità di interpretare bene ciò che è avvenuto in Libia dopo la caduta di Gheddafi.

Vale a dire?

La vera destabilizzazione della Libia è avvenuta parecchi mesi dopo la destituzione di Gheddafi. Nell’estate del 2012, dopo le elezioni libere e partecipate il processo per la creazione di una nuova Costituzione è finito nel nulla. Ciò è accaduto perché in Egitto, dall’inizio del 2012, si era insediato un presidente islamista, il leader dei Fratelli Musulmani egiziani Mohammed Morsi. Ciò ha dato una spinta forte a tutti i movimenti collegati alla Fratellanza in Nord Africa. Il processo di democratizzazione in Libia è morto a causa di questa controspinta partita dall’Egitto.

Qual è oggi il peso degli islamisti e della minaccia jihadista in Libia?

Gli islamisti controllano molte milizie. Ci sono anche gruppi che simpatizzano per lo Stato Islamico. Bisogna avere ragione su queste realtà, portare le popolazioni, i villaggi e le tribù a collaborare con quelle figure che vogliono una Libia più laica e tollerante. Non è irrealistico riuscirci, è una necessità. Noi europei, però, non dobbiamo lasciare che le cose vadano come stanno andando perché siamo ossessionati dal principio della non interferenza, dall’idea che dobbiamo limitarci a promuovere i principi legati allo Stato di diritto e al rispetto dei diritti umani.

La stabilizzazione della Libia passa inevitabilmente per un accordo di governo con il generale Haftar?

Bisognerà trovare un punto di equilibrio tra tutte le personalità politiche che sono in gioco in Libia. Non amo l’iperrealismo in politica. Non è però realistico pensare che nell’attuale quadro libico una figura come Haftar – che ha sostegni forti dall’esterno, come dall’Egitto, da alcuni Paesi del Golfo, dalla Russia e dalla Francia – venga messo in ombra. Il ruolo di Haftar va riconosciuto, ma questo riconoscimento richiede che egli rispetti un accordo politico.

La scelta del governo Gentiloni di inviare una missione militare in Niger può contribuire a riposizionare l’Italia nello scacchiere africano?

Con la decisione di avviare una missione militare in Niger i nostri ministri dell’Interno e della Difesa hanno dimostrato di essere più consapevoli dell’esigenza di muoversi molto più attivamente che in precedenza, non solo nei confronti della Libia ma di tutti gli altri Paesi della regione: oltre a Niger, anche Ciad, Mali, Repubblica Centrafricana. La nostra forza in Niger, chiaramente, non può essere lasciata lì soltanto ad addestrare le forze nigerine per il controllo dei confini. Dovremo essere pronti a rispondere a eventuali attacchi. Essere lì significa esserci in modo coordinato con i francesi e con la missione multilaterale dei Paesi del Sahel 5

Oltre che dall’area di confine tra Libia e Niger, da dove arrivano altri problemi?

Molti hanno trascurato il Mali. L’accordo firmato nel 2015 sembrava essere risolutivo per una nuova intesa di governo a Bamako. Invece ha lasciato spazio al riorganizzarsi dei tuareg e all’infiltrazione di cellule jihadiste in particolare a sud dell’Azawad, nella zona di Timbuktu. Ciò che succede qui ha a che fare con la nostra sicurezza nazionale, perché è qui che si generano gli enormi traffici di esseri umani, di droga e di armi che arrivano fino al Mediterraneo. Per fermarli serve un’azione diplomatica molto sostenuta con questi Paesi, investimenti da parte dell’Unione Europea e un coordinamento a livello militare. Da qui devono scaturire non solo interventi comuni contro il terrorismo e per la gestione flussi migratori, ma anche per investire nello sviluppo di questi Paesi. E noi, certamente, non possiamo farlo da soli.

Articolo pubblicato sul n. 1 di Babilon