Il 29 marzo si avvicina. Sono sul tavolo sei opzioni, tra cui lo scenario apocalittico del no deal. Due settimane fa la premier inglese Theresa May si è nuovamente recata a Bruxelles nell’ennesimo disperato tentativo di riaprire i negoziati sul suo accordo di divorzio, ma ha offerto a Westminster la possibilità di scegliere il corso degli eventi. Comunque vada, il Paese ha già perso.

SO WHAT THE HELL HAPPENS NOW?

L’incertezza di Brexit cresce. Tic tac, tic tac, tic tac. Le lancette scorrono più velocemente del solito oltremanica, come una sentenza. Dopo quasi tre anni da quello storico 23 giugno 2016 e un anno e mezzo di concitati negoziati e di ministri dimissionari il Regno Unito si appresta a uscire dall’Unione europea. Come lo farà è ancora avvolto nel mistero. Quando lo farà non è più così sicuro.
La scadenza prestabilita del 29 marzo è dietro l’angolo. Tuttavia, il 15 gennaio l’accordo sulle modalità di recesso che si era raggiunto nel novembre scorso tra la Commissione europea e il Governo di Theresa May è naufragato alla Camera dei Comuni con un margine senza precedenti: 432 voti contrari, 202 favorevoli. La ragione principale di questa umiliante e trasversale bocciatura è stata la spinosa questione del backstop, che riguarda il confine di cinquecento chilometri tra l’Irlanda (Stato membro UE) e l’Irlanda del Nord (Nazione costitutiva del Regno Unito). Il backstop è il piano B. Nessuno vuole attuarlo, ma è una minaccia indispensabile. Si tratta di una clausola di salvaguardia volta a evitare il ritorno di un confine rigido, cioè controlli alla frontiera, tra le due Irlande. Si manterrebbe un’area doganale comune comprendente l’UE e il Regno Unito e in cui Belfast rimarrebbe sostanzialmente all’interno del Mercato unico. In pratica intrappolerebbe l’intero Paese nel quadro normativo europeo e creerebbe delle frizioni commerciali nel Mare d’Irlanda tra l’Irlanda del Nord e la Gran Bretagna: un vero e proprio voltafaccia rispetto al “take back control“, inaccettabile per gli oltranzisti del Partito conservatore e per gli unionisti nordirlandesi. Il backstop si applicherebbe solo alla fine del periodo transitorio, cioè dopo il 31 dicembre 2020 (la data può essere spostata fino a un massimo di due anni), e nel caso in cui in questo stesso intervallo di tempo non venisse trovato un soddisfacente futuro partenariato tra le due controparti. La posizione a Westminster è comprensibile: stendere un ambizioso trattato di natura politica, economica e commerciale completamente nuovo in soli ventuno mesi non è cosa da poco e il backstop, una volta scattato, non avrebbe né un termine né una garanzia di uscita unilaterale. Il meccanismo minerebbe l’integrità del Regno Unito. È comprensibile anche la posizione a Bruxelles: serve un’assicurazione illimitata sul fatto che in qualunque circostanza il Mercato unico non sarà danneggiato e gli accordi del Venerdì Santo del 1998 non verranno inficiati.
«So what the hell happens now?». Così titolava il 25 giugno 2016 il Daily Mirror. Novecentottantacinque giorni dopo la domanda rimane. La stessa copertina del tabloid inglese potrebbe essere riproposta oggi. Gli scenari possibili, alcuni dei quali tra loro compatibili, sono sei:

  1. Proroga della data di uscita ufficiale come sancito dall’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea;
  2. Uscita del Regno Unito dall’UE senza accordo (no deal);
  3. Rinegoziazione dell’accordo di divorzio e via libera della Camera dei Comuni;
  4. Dimissioni del Primo Ministro britannico, sua sostituzione e/o indizione di nuove elezioni politiche;
  5. Organizzazione di un secondo referendum con uguale o diversa formulazione rispetto al precedente;
  6. Revoca unilaterale da parte dello Stato di recedere dall’Unione ai sensi di quanto stabilito dalla Corte di giustizia dell’UE lo scorso dicembre.

Fig. 1 – Il primo inistro britannico Theresa May

SI PAGA!

Con l’avvicinarsi del 29 marzo l’attuale impasse non rimuove il rischio di una Brexit dura, ovvero del no deal. Rappresenterebbe il peggior risultato possibile dal punto di vista economico e politico, ma è l’unica opzione che si materializzerebbe automaticamente se non si trovasse un’intesa nelle prossime settimane a Westminster e tra Londra e Bruxelles. Un’uscita caotica senza periodo transitorio avrebbe almeno nel breve periodo ricadute negative su entrambi gli attori. Ovviamente l’impatto sarebbe relativamente maggiore per il Regno Unito che per l’UE. Si pensi che circa la metà delle esportazioni e delle importazioni di beni e servizi del primo è diretta oltremanica (l’Unione a Ventisette è il primo partner commerciale), mentre il Regno Unito costituisce in media il 7% dell’interscambio degli altri Stati membri.
In primo luogo, il Governo di Sua Maestà potrebbe rifiutarsi di onorare il costo del divorzio (45-50 miliardi di euro) all’Unione. L’inadempienza provocherebbe da una parte l’esigenza immediata di colmare un buco da 16,5 miliardi di euro nel bilancio europeo fino a dicembre 2020, dall’altra costituirebbe uno strappo diplomatico che ostacolerebbe la costruzione di un nuovo rapporto di cooperazione.
Inoltre, sul piano commerciale il Regno Unito diverrebbe un Paese terzo per i Ventisette con o senza accordo. In caso di no deal fin da subito non si applicherebbero gli accordi di libero scambio che l’UE ha con altri Stati, come Giappone o Corea del Sud, e le barriere tariffarie e non tariffarie verrebbero reintrodotte. Entrerebbe in vigore il regime di dazi previsto dall’Organizzazione mondiale del commercio secondo il principio della nazione più favorita. Pur essendo bassi in media, tali dazi causerebbero distorsioni per alcuni prodotti, come quelli caseari o i veicoli stradali. Sorgerebbero complicazioni e ritardi di tipo amministrativo e logistico, per esempio al porto di Dover. L’interscambio al confine irlandese, cha vale più di 3 miliardi di euro all’anno, sarebbe notevolmente danneggiato. Nonostante siano stati varati piani d’emergenza, le infrastrutture e il personale alle dogane non sarebbero sufficienti a svolgere un compito così oneroso dall’oggi al domani. Infine, risulterebbe poco chiara la regolamentazione di specifiche materie: servizi finanziari, trasporto aereo, politica per il clima, diritti dei cittadini europei e britannici.
A novembre la Banca d’Inghilterra ha pubblicato delle proiezioni catastrofiche sui potenziali effetti di una Brexit disordinata senza accordo. L’analisi è stata considerata da alcuni economisti esagerata, ma dà l’idea della strada che il Paese imboccherebbe nel peggiore dei casi. Il PIL del Regno Unito calerebbe dell’8% nel giro di un anno e la disoccupazione salirebbe dall’attuale 4% (dato dell’ultimo trimestre del 2018) al 7,5%. Sarebbe la peggiore recessione dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, più grave di quella avvenuta dieci anni fa. I prezzi delle case crollerebbero del 30% e la sterlina del 25%. La dinamica e l’imposizione di dazi aumenterebbero il costo delle importazioni e farebbero impennare l’inflazione dall’1,8% (dato di gennaio) al 6,5%, ponendo un serio dilemma sul segno di politica monetaria da implementare per l’istituto centrale. Misure restrittive domerebbero un’inflazione fuori controllo, mentre azioni espansive darebbero respiro a famiglie e imprese. Il contesto globale già di per sé non è roseo, quello nazionale men che meno. A Threadneedle Street hanno tagliato la stima di crescita per il 2019 dal precedente 1,7% all’1,2%. Ampliando lo sguardo, il Paese cresce ai minimi degli ultimi dieci anni e la produttività è rimasta pressoché ferma dal 2008.
Le cifre della Banca d’Inghilterra concernono costi futuri estremamente ipotetici. Ma diversi studi accademici accertano che l’economia britannica ha già pagato e sta pagando un conto salato a seguito del risultato referendario e nonostante Brexit non sia ancora formalmente avvenuta. La decisione di abbandonare l’organizzazione sovranazionale ha deviato la traiettoria di crescita del Regno Unito rispetto al trend che avrebbe mantenuto se la votazione del 23 giugno 2016 non fosse mai stata organizzata. Da quello shock al terzo trimestre del 2017 il Leave ha causato ingenti perdite: 19,3 miliardi di sterline, 300 milioni a settimana, circa l’1,3% di PIL. Nei dodici mesi successivi al referendum, a causa del Leave la sterlina si è deprezzata e l’inflazione è aumentata di 1,7 punti percentuali. In un solo anno la famiglia media si è ritrovata in tasca 404 sterline in meno, mentre il lavoratore medio ha visto erodersi il suo salario reale di 448 sterline. Il 14 febbraio Gertjan Vlieghe, uno dei membri del Monetary Policy Committee della Banca d’Inghilterra, ha riferito che ad oggi il costo di Brexit è stato la perdita del 2% di PIL. A fine 2019 dovrebbe salire al 3,4%. Il calo degli investimenti, dell’occupazione e dei consumi è dovuto a due fattori: l’elevata incertezza dei dettagli del recesso e del tipo di rapporto futuro con l’Unione e l’aspettativa di un minore tenore di vita al di fuori del blocco comunitario. La fiducia si è deteriorata. Ciò ha inciso sulle decisioni di esportare da parte delle imprese locali, sui flussi degli investimenti diretti esteri, sull’andamento della Borsa di Londra, dove le più colpite sono state le società più esposte ai legami tra mercato domestico e Mercato unico. Da ultimo, sempre a partire dal 2016 l’immigrazione dai Paesi UE ha subito una brusca frenata, che, se continuasse negli anni a venire, potrebbe rendere irreversibile l’attuale bassa crescita del PIL e della produttività.

Fig. 2 – Il capo negoziatore dell’UE per Brexit Michel Barnier

LA RESA DEI CONTI SULL’ACCORDO MAY?

Lo spettro del no deal rende particolarmente roventi in questi giorni i contatti sulla linea Londra-Bruxelles. Al momento May, su mandato della Camera dei Comuni, continua a lavorare per trovare un compromesso di natura vincolante sul backstop. Mercoledì 20 febbraio la premier si è nuovamente recata nella capitale UE per incontrare il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. La domenica e il lunedì seguenti è stata la volta di Sharm el-Sheikh, dove ha visto ancora il lussemburghese, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e i presenti capi di Stato e di Governo europei al margine del vertice UE-Lega araba. È stato l’ennesimo disperato tentativo di salvare il lavoro di un anno e mezzo, ma il viaggio si è rivelato poco proficuo. La speranza di May è quella di compattare il Partito conservatore nei prossimi giorni e presentare ai deputati entro il 12 marzo l’accordo esistente con le relative modifiche. Qualora la proposta di divorzio venisse bocciata un’altra volta, a Westminster si sceglierà il corso degli eventi: una rottura dura o un’estensione “breve e limitata” dell’articolo 50. Le restanti alternative sopracitate non possono però essere escluse. Dal canto loro, Juncker, Tusk e il capo negoziatore dell’UE Michel Barnier hanno fatto muro contro la proposta di riaprire le trattative sui termini dell’addio, ma si sono mostrati disponibili alla possibilità di redigere un documento allegato o di ritoccare la dichiarazione non vincolante sulle future relazioni bilaterali. Si è di fronte a un chiaro esempio di quello che nella Teoria dei giochi è chiamato il gioco del pollo: ciascuna delle parti alza il tiro fino all’ultimo momento in modo da aumentare il proprio potere negoziale e strappare concessioni all’altra. Tuttavia, se nessuno cambia idea, si andrebbe incontro al tanto temuto scenario apocalittico.
Per quanto sia complicato lanciarsi in previsioni, alla fine su richiesta del Regno Unito il Consiglio europeo potrebbe rinviare il problema decidendo all’unanimità di posticipare la data di Brexit, per un breve periodo o addirittura di ventuno mesi secondo il Guardian. Qui ci potrebbero essere dei problemi. Innanzitutto, non è scontato che i Ventisette siano disposti a dare più tempo a Londra. Cosa succederebbe in caso di veto anche solo di uno Stato membro? Se invece venisse concessa una proroga dai leader europei, è verosimile che il Governo britannico presenti un piano diverso da quello attuale, persino un formato norvegese/canadese di Brexit morbida. Quanto tempo servirebbe per stravolgere quanto fatto e detto finora e arrivare a un accordo che accontenti tutte le parti? Quali condizioni verrebbero poste al Regno Unito? Peraltro il differimento della procedura di separazione non esclude la possibilità che lo scenario del no deal si ripresenti. In secondo luogo, se l’uscita del Regno Unito slittasse oltre maggio, si verrebbe a creare il paradosso per cui i cittadini di un Paese uscente vengano chiamati alle urne per le elezioni del Parlamento europeo. Quali sarebbero le conseguenze per il funzionamento dell’istituzione UE?
La verità è che le opzioni in campo sono ancora tutte realizzabili. Dopo quasi tre anni non sono diminuite, anzi sono aumentate. L’idea di “Brexit means Brexit” non ha mai avuto una forma concreta: non ce l’aveva quando la maggioranza del popolo britannico si pronunciò per il Leave nel 2016, non ce l’ha nel 2019 e sarà molto difficile che l’assuma durante il periodo di transizione, se mai ce ne sarà uno. Comunque vada, il Regno Unito ha già perso. Forse, prima di riavviare i negoziati con l’Unione europea, il Paese dovrebbe fare una profonda riflessione su cosa è, su cosa vuole essere e su quale ruolo può effettivamente ricoprire la quinta economia più grande al mondo al di fuori del blocco comunitario. Sia il Partito conservatore sia il Partito laburista si sono dimostrati lacerati al loro interno. Soprattutto il primo da anni vive una lotta intestina senza esclusione di colpi. Ma questi giochi di potere hanno un costo.
E intanto l’incertezza cresce. Tic tac, tic tac, tic tac. Le lancette scorrono più velocemente del solito oltremanica, come una sentenza.

Roberto Italia