Come nella più classica delle storie di spionaggio, la lotta tra servizi d’intelligence non conosce regole ed è senza esclusione di colpi. Anzi, nella vicenda del giornalista e dissidente saudita Jamal Khashoggi di colpi ve ne sono stati anche troppi. Così tanti che l’uomo è morto tra le mani degli agenti segreti sauditi, dopo inaudite torture da loro inferte a suo danno.

A dimostrarlo i servizi turchi, che hanno affermato di avere le prove delle registrazioni audio e video delle sevizie e della distruzione del corpo dell’uomo, che sarebbe avvenuta all’interno del consolato saudita di Istanbul. Il che significa anche che il consolato era da tempo compromesso (come probabilmente lo sono anche quelli di molti altri paesi, e così anche le ambasciate). Del resto, è uno dei più vecchi trucchi dell’intelligence quello di monitorare ogni movimento in ingresso e in uscita delle ambasciate straniere, così come l’intercettare telefonate e il fare riprese video quando possibile. I servizi segreti italiani, ad esempio, in questo sono sempre stati molto bravi.

Ma la vicenda che riguarda il giornalista scomparso dallo scorso 2 ottobre in Turchia dopo essere entrato nel consolato saudita, ha dell’inquietante. La vicenda, se confermata, getta infatti vergogna e biasimo sull’intera Arabia Saudita. Proprio quel paese che, sotto la guida del principe ereditario Mohammed Bin Salman, prometteva di alzare l’asticella dei diritti civili, per portare il regno verso un mondo meno autoritario e violento. Proprio le critiche alla politica del principe prodotte da Khashoggi, che considerava il principe un falso moderato, lo potrebbero aver condotto alla condanna a morte e all’uccisione.

Chi era Jamal Khashoggi

Khashoggi era da sempre un severo critico del governo saudita, e di Mohammed in particolare. Come molti colleghi prima di lui, aveva scelto l’esilio volontario e si era stabilito negli Stati Uniti. In qualità di editorialista del Washington Post, da tempo denunciava sia in arabo che in inglese come la politica saudita non fosse realmente cambiata. Nell’editoriale apparso il 18 settembre 2017, scriveva ad esempio: «Con l’ascesa al potere del giovane principe ereditario Mohammed bin Salman, promise un abbraccio di riforme sociali ed economiche. Ha parlato di rendere il nostro Paese più aperto e tollerante e ha promesso che avrebbe affrontato le cose che frenano i nostri progressi, come il divieto di guidare le donne. Ma tutto quello che vedo ora è la recente ondata di arresti».

Ora, secondo le informazioni raccolte dal giornale di Capitol Hill, molti degli amici del giornalista avevano riferito di come, negli ultimi quattro mesi, alti funzionari sauditi vicini al principe ereditario lo avessero contattato per offrirgli protezione, e persino un lavoro di alto livello per il governo, se fosse tornato nel suo paese d’origine. E vi sono dubbi sul fatto che l’intelligence americana fosse o meno a conoscenza del pericolo che correva Khashoggi, in relazione a questi contatti sibillini.

Il Washington Post ha domandato a un funzionario di stato se l’FBI o la DNI o altre agenzie d’intelligence avessero ammonito il giornalista circa un possibile rapimento a suo danno, considerata anche la sua esposizione mediatica. Domanda lecita poiché, secondo una direttiva del 2015, è un obbligo di legge per i servizi segreti USA avvertire un singolo individuo circa un pericolo imminente. Tale legge si applica indipendentemente dal fatto che la persona sia un cittadino degli Stati Uniti (Khashoggi era negli USA come residente).

«Anche se non posso commentare questioni d’intelligence, posso dire definitivamente che gli Stati Uniti non avevano alcuna conoscenza in anticipo della scomparsa di Khashoggi», ha riferito ai giornalisti il ​​portavoce del vicedirettore di Stato, Robert Palladino. Alla domanda se il governo degli Stati Uniti avrebbe avuto il dovere di avvertire Khashoggi se fosse stato in possesso di informazioni circa un pericolo imminente, Palladino ha rifiutato di rispondere in quella che ha definito una «domanda ipotetica».

I contatti con il principe Bin Salman

Secondo il Post, in ogni caso, sarebbe stato il principe ereditario in persona ad aver ordinato l’operazione d’intelligence per allontanare Khashoggi dalla sua casa in Virginia e condurlo in Arabia Saudita. Una trappola pensata non per ucciderlo, ma per arrestarlo. Una persona in contatto diretto con il principe ereditario, parlando a condizione dell’anonimato per preservare la sua relazione col regno, ha riferito che nel 2017 Khashoggi gli aveva personalmente chiesto di recapitare un messaggio direttamente al principe Mohammed Bin Salman, e in quel testo si sosteneva che Salman aveva bisogno di qualcuno come Khashoggi come consigliere. Una sorta di auto candidatura.

Dopo aver trasmesso il messaggio, però, il principe ereditario avrebbe risposto al messaggero che Khashoggi era legato alla Fratellanza Musulmana e al Qatar, entrambi molto ostili ai sauditi, e che di conseguenza nessun accordo col giornalista sarebbe mai potuto avvenire. La circostanza dei rapporti tra il giornalista e il principe è indirettamente confermata da amici intimi di Khashoggi, i quali sostengono che almeno due volte in un anno l’editorialista scomparso aveva ricevuto telefonate cordiali da parte di Qahtani, il consigliere del principe, che gli trasmetteva messaggi amichevoli a suo nome. Ma – e qui sta il vero giallo dell’intera storia – la situazione dev’essere precipitata, durante o dopo l’estate 2018.

Lo strano comportamento dell’intelligence turca

Quando la sua sparizione è diventata ufficiale e il caso di rilevanza internazionale, alcuni funzionari turchi – paese, come noto, vicino al Qatar – hanno iniziato a far trapelare voci secondo cui un gruppo di sicurezza saudita aveva seguito in ogni passo il giornalista sin dalla data della scomparsa. Sempre loro hanno riferito per primi la circostanza secondo cui Jamal Khashoggi, una volta varcata la soglia del consolato di Istanbul, non ne è più uscito.

La Turchia ora dice di avere le prove audio e video della morte del giornalista, e lo fa contravvenendo a una regola aurea anche se non scritta dell’intelligence, quella cioè di rivelare essa stessa le tecniche e i segreti di stato producendo prove a favore dei media, anziché gestirle in contesti segreti o attraverso canali riservati. Il che ha quasi dell’incredibile, oltre al fatto che ciò significa per la Turchia esporsi alla reprimenda internazionale, dato che tali “prove” sono state ottenute in grave violazione di tutte le norme diplomatiche.

L’atteggiamento inusuale tenuto dai servizi turchi e le prime informazioni trapelate, avevano inizialmente fatto ritenere agli esperti che le suddette «immagini e registrazioni» di cui tanto si parlava fossero quelle provenienti dall’Apple Watch, l’orologio tecnologico dell’azienda di Cupertino che Khashoggi era solito indossare al polso. Invece, ora i turchi parlano apertamente di telecamere e microfoni piazzati nel consolato dai servizi.

Il materiale, comprensibilmente, non è stato pubblicato, e la Turchia in una nota si è affrettata a far sapere di temere che ciò «possa rivelare come Ankara spii le entità straniere nel Paese». Un’affermazione di un candore tanto stupefacente quanto ridicolo, considerate l’esperienza e la spietatezza del servizio turco, che certo non è da meno dei sauditi quanto a violazione dei diritti umani. Ma tant’è.

Le conseguenze politiche

Dunque, all’ombra dell’omicidio di un dissidente saudita, s’intravedono trame che potrebbero condurre a uno scontro diplomatico serio tra i paesi coinvolti direttamente o meno: Arabia Saudita, Stati Uniti, Turchia e Qatar. Alcuni senatori degli Stati Uniti stanno ad esempio valutando l’applicazione di sanzioni contro l’alleato del Golfo, in risposta alla barbara fine del giornalista.

Inoltre, se dovesse emergere chiaramente una prova della colpevolezza di Riad, questo imbarazzerebbe non poco l’Amministrazione Trump, che ha legato la sua alleanza in Medio Oriente proprio alla casa regnante saudita. Senza considerare lo stretto rapporto tra Jared Kushner, genero e consigliere di Trump, proprio con il principe Mohammed Bin Salman.

A beneficiare dello scandalo Khashoggi sono invece la Turchia e il Qatar, quest’ultimo isolato dal resto dei paesi del Golfo per essersi troppo avvicinato all’Iran, e oggi sostenuto dalla Turchia per ragioni di mera convenienza. Ma c’è da credere che i colpi di scena non siano finiti qua, così come presto o tardi arriveranno le ritorsioni per una vicenda-scandalo che ormai ha inaugurato, a tutti gli effetti, una guerra di spie in Medio Oriente.