Come era prevedibile, la giornata del voto di domenica 29 luglio indetta in Mali per le elezioni presidenziali è stata attraversata da tensioni e attentati. Secondo le ultime stime ufficiali fornite dalle autorità maliane, le operazioni di voto sono state interrotte in circa un quinto dei seggi del Paese (4.630 su 23.000) e in oltre 600 seggi la gente non ha potuto votare a causa di «attacchi armati» o altre «azioni violente».

Sugli scudi la coalizione qaedista Jama’a Nusrat ul-Islam wa al-Muslimin (JNIM), in cui dal marzo del 2017 sono confluite AQIM (Al Qaeda nel Maghreb Islamico), Ansar Eddine, Al-Mourabitoune (“Le sentinelle”), il gruppo salafita Fronte di Liberazione di Macina, oltre alla famigerata primula rossa d’Africa Mokhtar Belmokhtar. Il 29 luglio un gruppo affiliato alla coalizione qaedista ha rivendicato un attacco avvenuto nel villaggio di Aguelhok, nella regione settentrionale di Kidal. Uno dei colpi di mortaio fatti esplodere dai terroristi è arrivato a circa 100 metri da un seggio del villaggio, causando la sospensione temporanea del voto. Altri seggi sono stati incendiati a Timbuktu, Gao, Mopti e a Segou.

Nonostante il governo di Bamako continui a parlare di voto svoltosi in condizioni mediamente sicure, di fatto sono stati tanti gli elettori a cui è stato impedito di recarsi alle urne. Proprio questo elemento è già diventato motivo di scambi di accuse tra i candidati. Soumaïla Cissé, candidato del partito Union pour la République et la Démocratie e della piattaforma Ensemble, restaurons l’espoir, ha chiesto al presidente uscente Ibrahim Boubacar Keïta di comunicare la lista dei seggi in cui non si è potuto votare. I primi risultati ufficiali si avranno non prima di qualche giorno.

Le elezioni in Mali sono un test che interessa direttamente anche l’Italia. In questo Paese, messo a soqquadro da una violenta guerra civile iniziata nel 2012 tra i tuareg del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad, gruppi islamisti affiliati ad Al Qaeda e le autorità centrali di Bamako, una società italiana si sta impegnando sul campo per dare un’alternativa concreta alle migliaia di ex combattenti “sedotti e abbandonati” da chi in questi anni ha soffiato su questo conflitto.

La società in questione è la società leccese R.I. Group, che in collaborazione con il Ministero della Difesa e dei Veterani maliano partecipa al Programma nazionale per il disarmo, la smobilitazione e il reinserimento degli ex guerriglieri. La R.I. Group, nella fattispecie, ha avviato un progetto pilota per costruire e attrezzare sei centri di formazione professionale nella località di Soufouroulaye, nella regione di Mopti. L’intervento è stato finanziato interamente dalla società leccese e dal governo maliano.

 

L’iniziativa è sostenuta dalla missione delle Nazioni Unite in Mali MINUSMA (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali) e dal fondo IDA (International Development Association) della Banca Mondiale. La speranza è che dopo il progetto pilota di Mopti altri centri di riabilitazione e avviamento professionale possano sorgere a Ménaka, Mopti, Gao, Ségou, Tombouctou, Kidal, Taoudénit, Nioro e Banamba.

Per gli ex combattenti maliani sono stati pianificati corsi di formazione e stage professionali nei principali settori portanti dell’economia maliana: edilizia, elettrico, idraulica, manifattura in legno, in acciaio e alluminio. Il fine è dare a queste persone un’alternativa concreta alla guerriglia, garantendone il graduale inserimento nel locale mercato del lavoro. Alla base del progetto c’è stato un attentato lavoro di profilazione degli ex combattenti, uno studio da cui è emerso che la stragrande maggioranza dei giovani maliani che hanno inizialmente aderito alla guerriglia lo ha fatto principalmente per una questione di sopravvivenza economica. Di fronte alla disoccupazione e alla fame, al momento dello scoppio del conflitto nel 2012 questi giovani hanno ritenuto più conveniente e remunerativo venire assoldati negli squadroni dei combattenti dell’Azawad o da signori della guerra come Belmokhtar.

 

 

Imparando un mestiere in centri come quello di Soufouroulaye, adesso tanti di questi giovani potranno guadagnarsi da soli uno stipendio di 500 dollari al mese e, un giorno, avviare una propria piccola attività. In prospettiva sarebbero tangibili anche i benefici per la regione del Sahel e per i Paesi limitrofi al Mali: riduzione dei flussi di immigrazione irregolare che attraversano il Sahara; accelerazione del processo di disarmo dei gruppi armati presenti nella regione (circa 10-12.000 ex combattenti); reinserimento e avviamento alla micro-imprenditoria degli ex combattenti nelle comunità locali e nelle forze armate nazionali; deterrenza all’espatrio; avviamento di un circolo virtuoso di economia e sviluppo sostenibile regionale e internazionale. Sarebbe un grande passo in avanti per un Paese e per una regione in cui finora poco hanno potuto finanziamenti a pioggia e migliaia di caschi blu.