Ci sono molte similitudini politiche e caratteriali fra Bibi Netanyahu e Donald Trump: la cosa è nota. Tuttavia il risultato delle primarie del Likud del 26 dicembre trasforma le similitudini in somiglianze. Vincere con il 72,5% su Gideon Sa’ar, l’unico ad avere avuto il coraggio di sfidarlo, è una rara prova di forza nel frastagliato panorama politico d’Israele. Una «tremendous victory», ha sottolineato Bibi, ricordando anche nel vocabolario l’amico e alleato americano.

Alle elezioni politiche di marzo l’israeliano si presenterà nonostante i giudici presto o tardi lo chiameranno in tribunale a rispondere di tre accuse per corruzione. Come l’americano che a novembre correrà per la rielezione all’ombra di un impeachment. Ma per i “likudnikim” e per i repubblicani, i problemi con la giustizia dei loro leader sono irrilevanti. Dopo le primarie e il corposo risultato, anche il Likud assomiglia sempre di più al Grand Old Party americano: più partiti di un leader che forze politiche con un programma, una visione e un dibattito interno.

Tuttavia, il problema d’Israele non sono le similitudini americane né la trasparenza morale di Netanyahu. Il vero problema è che a marzo il paese voterà per la terza volta in meno di un anno. La prima elezione l’aveva vinta di poco Netanyahu; la seconda Benny Ganz di Kahol Lavan (Blue banco, i colori della bandiera nazionale), anche lui di poco. È possibile che qualcosa accada durante la nuova campagna elettorale: per esempio che il centrista Ganz, ex capo di stato maggiore, conquisti i cuori di una maggioranza più consistente d’israeliani; che Bibi sia travolto dagli scandali o, al contrario, il suo passato militare e l’abilità politica (cose che Trump non possiede) spinga gli elettori a preferire lui.

Ma nessuno dei due vincerà con una maggioranza indiscutibile per governare stabilmente (questo è certo) né avrà la forza di costruire una coalizione (questo è altamente probabile) con i numeri per durare. Il sistema politico israeliano è affollato e la soglia d’ingresso in parlamento per i partiti è troppo bassa. La tribalizzazione del confronto politico è sempre più marcata: destra, centro e sinistra; laici e religiosi; russi e sefarditi. Come le due precedenti, la terza elezione rischia di essere solo l’anticamera della quarta.

Ciò che tiene in piedi il sistema, che impedisce una “primavera israeliana”, sono un’economia solida anche se dalla ricchezza mal distribuita; una democrazia indiscutibile anche se etnica (gli arabi-israeliani ne fanno relativamente parte) e nonostante i tentativi di modificarla delle destre nazional-religiose; e le minacce alle frontiere: l’Iran e il suo alleato libanese Hezbollah e in misura minore Hamas di Gaza. I palestinesi dell’Autorità palestinese, in Cisgiordania, saranno ancora una volta i muti e impotenti testimoni delle convulsioni elettorali israeliane: sanno che chiunque vinca, il processo di pace non riprenderà.

PHOTO Credits: EPA/ARIEL SCHALIT

Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 28 dicembre 2019