Il difficile viaggio del papa in Asia comincia da Yangon, l’ex capitale birmana. L’agenda prevede gli incontri con il Presidente Htin Kyaq e con il Ministro degli affari esteri nonché leader della Lega Nazionale per la Democrazia e premio Nobel, Aung San Suu Kyi. Fissato per il 30 Novembre, invece, prima della partenza per il Bangladesh, il colloquio con il generale, e uomo forte dell’esercito, Min Aung Hlang.

“Un cordiale benvenuto” e “Viva Papa Francesco” sono le scritte più in voga in questi giorni. Le chiese della piccola comunità cristiana in Myanmar, 700mila persone su 51 milioni di abitanti, si stanno preparando alla visita del pontefice. La prima nella storia. Ma l’eccitazione è mitigata dall’ansia. La questione dei massacri perpetuati, dall’esercito e dai nazionalisti buddisti e subiti dalla minoranza musulmana dello Stato di Rakhine, è la principale causa dell’apprensione.

Nel paese asiatico è vietato anche solo nominare quella parola: Rohingya. Senza diritti civili, i musulmani birmani sono considerati una concausa del colonialismo inglese. L’accusa all’etnia è quella di essere stata importata dal vicino bengala per sopperire al bisogno di manodopera nell’area. Dal 1948, anno dell’indipendenza del Myanmar, si sono susseguite violenze contro la minoranza. L’ultima, iniziata nell’ottobre del 2016, ha dato il via a una delle crisi di rifugiati più dure della storia. Oltre 600mila profughi (ma altre stime parlano di un milione) hanno lasciato il Myanmar per riversarsi nei campi allestiti nel vicino Bangladesh. Le loro storie parlano di fosse comuni, stupri di gruppo e incendi dolosi da parte dei militari birmani.

 

La posizione del Papa e dei cattolici birmani

 

Francesco, il primo pontefice gesuita, è notoriamente una figura di rottura all’interno della Chiesa. A inizio 2017 ha già espresso il suo punto di vista sulla minoranza musulmana birmana: parlando dei «nostri fratelli e sorelle Rohingya», ha scatenato le reazioni piccate delle autorità di Yangon. E mentre i cattolici locali sono divisi sulla questione – simpatizzano per i musulmani perseguitati, ma sono spaventati dal poter essere bersaglio di una reazione nazionalista – il più importante cattolico del paese, il cardinale Charles Maung Bo, ha consigliato al papa di non usare proprio nei suoi discorsi la parola “Rohingya”.

«Il desiderio della maggioranza, forse non solo dei cattolici ma anche di tutti i cittadini del Myanmar, è che lui non dia questo appellativo alla minoranza, perché conosciamo la complessità del problema», ha affermato domenica 26 novembre sul Guardian padre Mariano Soe Naing, portavoce della Conferenza episcopale del Myanmar.

Per capirne di più, lo scorso 6 novembre precedente Papa Francesco aveva incontrato in Vaticano Kofi Annan, l’ex segretario generale delle Nazioni Unite che ha diretto una commissione consultiva proprio sullo stato di Rakhine e sulle persecuzioni in atto. Il dossier di Annan, concluso nel febbraio di quest’anno, indicava senza mezzi termini come “pulizia etnica” le violenze subite dai Rohingya. «Siamo sicuri che Kofi Annan deve aver spiegato a fondo la crisi e il Papa deve aver capito ormai se deve dire qualcosa o no», ha concluso padre Soe Naing in merito.

Tuttavia, la diplomazia di Papa Francesco è notoriamente indipendente e incline a mosse fuori dal protocollo. Durante una visita a Betlemme nel 2014, ad esempio, ha fermato l’auto alla barriera tra Palestina e Israele e baciato il muro di separazione. Un gesto inaspettato, che ha imbarazzato non poco gli israeliani presenti.

La comunità internazionale

I leader nazionalisti in Myanmar seguiranno da vicino la visita, tra la crescente rabbia per la percezione che la comunità internazionale si stia intromettendo negli affari interni del Myanmar. «Perché adesso e in questa situazione? Bisogna domandarsi, c’è qualche tensione tra cristiani e musulmani? O questa è la richiesta del popolo cattolico? O ci sono problemi tra buddisti e cristiani? O si sta concentrando solo sul popolo bengalese e sul Rakhine? Prima che l’uccello si sieda sul ramo di un albero, il ramo non ha vibrazioni, ma quando l’uccello vola via il ramo ondeggia». Queste le parole del leader nazionalista del Rakhine, il dottor Aye Maung, presidente del partito nazionale Arakan, la cui metafora suona vagamente minacciosa.

Sullo sfondo della visita di Papa Francesco, resta la comunità internazionale. Rex Tillerson, segretario di Stato americano, il 22 novembre ha stigmatizzato le violenze nel Rakhine come un «esempio di pulizia etnica». Più cauta e attendista la visione di Bruxelles: Federica Mogherini, alto rappresentante per le politiche estere dell’Unione Europea, durante la recente visita in Bangladesh e Myanmar non ha usato direttamente la parola Rohingya e ha solo accennato alla necessità di lavorare per la soluzione della crisi. Anche se modi e tempi sono rimasti oscuri.

La posizione cinese

Ma è la Cina il vero scoglio per Bergoglio. Pechino è il referente numero uno di Yangon. Da un anno la diplomazia vaticana sta lavorando a un accordo con le autorità di Pechino sulla nomina dei vescovi e sulla conseguente regolamentazione della comunità cristiana. Un’eventuale presa di posizione forte in Myanmar sui Rohingya, potrebbe minare il percorso diplomatico.

Questo viaggio, dunque, è un vero e proprio campo minato per la realpolitik del pontefice. Il Papa si troverà a camminare su un filo sospeso per tutti i sei giorni di permanenza in Asia. In Bangladesh, dove l’arrivo della delegazione pontificia è previsto il 30 novembre, potrà forse esprimersi più liberamente e incontrare i rifugiati, ma anche in questo caso non mancano le difficoltà. Il recente accordo sul rimpatrio dei Rohingya, firmato a Dacca pochi giorni fa tra i due governi, pone Francesco davanti all’ardua scelta se avallarlo, porsi in contrasto o ignorarlo del tutto.

Intanto, nell’inferno dei campi profughi del Bangladesh, si spera. Ong e attivisti per i diritti umani confidano nella visita del pontefice per modificare lo status quo e aumentare l’attenzione verso la questione. Il dottor Ahmed, che lavora con una piccola associazione all’interno del campo di Kutupalong, un’area da 500mila rifugiati chiarisce il concetto: «L’emergenza tocca moltissimi campi: acqua potabile, cure mediche, distribuzione di cibo, assistenza per le vittime di violenza sessuale, protezione per i bambini orfani. Abbiamo bisogno di ogni aiuto possibile per fronte a tutto questo. Non è abbastanza ciò che abbiamo ora».