Intervista a Pedde, Stati Uniti e Iran quali i rischi

«Non siamo di fronte a un’escalation. Nonostante la situazione sia chiaramente molto tesa e si ripetano degli episodi particolarmente gravi, siamo fortunatamente in una condizione molto particolare. Tanto l’Iran quanto gli Stati Uniti sono di fatto alla ricerca di un contesto negoziale». Per Nicola Pedde, direttore di Igs (Institute for Global Studies), esperto delle dinamiche interne della Repubblica islamica, gli incidenti avvenuti nel Golfo in questo momento non riescono a far salire il piano della conflittualità e quindi a provocare l’escalation. Ma, spiega l’analista, nel loro ripetersi tali incidenti prima o poi riusciranno a innescare un meccanismo di crisi. Pedde ha risposto per noi ad alcune domande sul confronto tra Washington e Teheran.

La dichiarazione di Teheran, che rinvedica di aver smascherato una rete di spionaggio, è un messaggio rivolto anche alla platea interna, non solo agli Stati Uniti?

«È soprattutto un messaggio diretto alla platea interna, peraltro si riferisce ad operazioni di parecchi mesi fa. Bisognerebbe anche capire quanto sia vera la notizia, basti pensare che ci sono i profili delle persone condannete ritratte nelle foto famiglia che girano sui social network. Se fosse vero, sarebbe stato gestito tutto in modo un po’ naïf  dalla CIA e non credo che sia questo il caso. Il messaggio che il Paese vuole mandare è: “siamo in grado di proteggerci, siamo in grado di debellare le operazioni ostili che da ogni fronte arrivano e siamo in grado di sconfiggere anche il nostro nemico più grande: gli Stati Uniti e il suo intelligence“. Quanto tuttavia queste persone siano o no parte di una rete, se siano state condannate o meno, non lo sappiamo. E i dati sembrano essere un po’ frammentati, francamente».

Il 19 luglio i Pasdaran iraniani hanno rivendicato la cattura di una petroliera britannica nello Stretto di Hormuz. Il sequestro della Stena è avvenuto a distanza di poco tempo da un altro sequestro, quello di una petroliera iraniana a Gibilterra. Come si inserisce quest’ultima dichiarazione dell’Iran nel quadro generale della situazione nel Golfo?

«L’episodio della nave britannica era un episodio che bene o male si aspettavano un po’ tutti. Gli inglesi hanno sequestrato una nave a Gibilterra, di fatto dando seguito a una segnalazione di Bolton. Gli europei hanno criticato fortemente Trump e la decisione degli inglesi. Nessun Paese europeo ha voluto firmare una dichiarazione congiunta di condanna contro l’Iran. C’è una tensione che porta a maturare sentimenti di preoccupazione, anche se abbiamo visto la stessa Amministrazione americana dire “questa è una crisi tra inglesi e iraniani”. C’è una voglia di stemperare anche dal punto di vista americano. Il problema è chiedersi: quanto durerà questa capacità di stemperare e questa ricerca del contesto in cui negoziare?»

Quali i fattori di rischio?

«La questione è cosa includere in questo nuovo accordo a cui Trump vorrebbe arrivare. Sarà difficile perché dal punto di vista americano questo nuovo accordo non può non includere l’aspetto missilistico e il ruolo iraniano nella regione. D’altra parte sono linee rosse, soprattutto la parte missilistica, e in particolar modo adesso che dal lato iraniano c’è la percezione di essere sotto attacco e sotto una pressione multipla nella regione. Indubbiamente, le due parti si stanno ancora cercando. La situazione è diversa dal 2003, quando gli Stati Uniti volevano entrare a tutti i costi in Iraq, con o senza armi di distruzione di massa. Le due amministrazioni hanno un obiettivo difficile, ma tutto sommato positivo. Il problema è che ruotano a queste amministrazioni almeno quattro forze con una posizione decisamente contraria. Sono quelle del Consigliere per la sicurezza nazionale Usa Bolton, del primo ministro israeliano Netanyahu, del principe erede al trono saudita Mohammed Bin Salman e anche di una piccola componente del sistema dell’industria militare iraniana. Quest’ultima vedrebbe di buon occhio un conflitto di minime dimensioni che riporterebbe di fatto lo status quo e la gestione totalmente autoreferenziale dell’economia. Ci sono quindi diverse minacce che vengono da queste componenti esterne. E chiaramente ci sono una serie di rischi perché tali fattori continuano a provocare degli incidenti».

Come valuta la strategia della massima pressione Usa contro l’Iran?

«Allo stato attuale, la strategia della massima pressione non consente margini negoziali. È la trasposizione in politica estera dei libri che scriveva Trump quando faceva il venditore ma in politica estera non funziona. Trump non ha un piano B, quindi se fallisce la strategia della massima pressione, si va all’escalation. Gli entusiasti della strategia della massima pressione sono sostanzialmente quelli che remano contro ogni ipotesi di accordo. E sono limitati a quegli attori politici che da un’escalation avrebbero da guadagnare. Bolton risponde a una catena di interessi legati da una parte agli evangelici e a tutte quelle componenti oltranziste del fronte anti iraniano. C’è Netanyahu che ha una propria agenda personale di problemi, non ultimo i libici, su cui chiaramente l’escalation potrebbe avere un effetto. Lo stesso MbS ha una sfilza di problemi, dal conflitto in Yemen alla crescente opposizione interna. È in quest’ambito che troviamo i giudizi più entusiasti sulla strategia della massima pressione. Ma chiunque segua la regione da un punto di vista professionale e analitico, è inorridito dal risultato. In questo momento, c’è bisogno di una componente esterna che sia capace di favorire e preparare il terreno su cui costruire questa capacità negoziale. Sarebbe ideale che fosse l’Europa, ma è completamente assente. Tale componente manca, quindi si assommano una serie di episodi, che nell’immediato non producono un rischio concreto, ma alla lunga rischiano di poterlo produrre».