Il ministro degli Esteri della Repubblica Islamica d’Iran, Mohammad Javad Zarif, ha rassegnato le dimissioni nel pomeriggio del 25 febbraio, annunciando la decisione attraverso un messaggio diffuso sul proprio profilo Instagram e scusandosi per l’impossibilità di continuare con il mandato. Nessuna informazione ufficiale è trapelata in merito alle motivazioni. Il presidente Hassan Rohani le ha respinte martedì 26.

L’annuncio delle dimissioni era arrivato in concomitanza con la visita a Teheran del capo di Stato siriano, Bashar al-Assad, e l’incontro con la guida suprema Ali Khamenei, Rohani e il comandante della Forza Quds Qassem Soleimani. Visita alla quale Zarif non ha preso parte, a seguito anche delle forti critiche espresse in merito alle ingerenze dei Guardiani della rivoluzione (pasdaran) sulla politica estera.

Il perché delle dimissioni
L’addio di Zarif sarebbe giunto improvviso ma non certo inaspettato, al culmine di un periodo di tensioni internazionali e domestiche che hanno logorato profondamente gli sforzi del politico iraniano, tra i principali artefici dell’accordo del 2015 sul programma nucleare con il gruppo del “5+1”, ratificato dalle Nazioni Unite.
Solo pochi giorni fa, il ministro aveva dichiarato di non escludere la possibilità di una guerra con Israele nel corso di un’intervista al quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung. Nella stessa occasione aveva accusato il premier Netanyahu di avventurismo e spregiudicatezza. I commenti erano stati formulati a pochi giorni da un nuovo raid israeliano in Siria, dove erano stati colpiti obiettivi riconducibili alle Forze armate iraniane. Secondo Zarif, Israele sarebbe alla “ricerca del conflitto” e perseguirebbe questo scopo violando sistematicamente la sovranità siriana, colpendo le truppe iraniane e tacciandole di essere un’avanguardia offensiva nei confronti dello Stato ebraico. Pochi giorni prima, lo stesso Zarif aveva definito inaffidabile il presidente Usa Donald Trump per aver compromesso la fiducia dell’Iran e della comunità internazionale con la fuoriuscita dall’accordo del 2015.
Le dimissioni respinte sono quindi il risultato dell’azione combinata di un duplice ordine di fattori, interni ed esterni alla Repubblica Islamica.
Sul piano internazionale, il ministro ha visto ormai del tutto logorata la capacità negoziale faticosamente costruita in vista e all’indomani dell’accordo del 2015. E ha intuito al tempo stesso come e quanto sia concreta l’ipotesi di un conflitto alimentato dall’ala più radicale dell’amministrazione statunitense – oggi orfana di James Mattis e, quindi, dell’ultimo freno all’escalation militare – e dagli alleati regionali IsraeleArabia Saudita, disperatamente alla ricerca di un diversivo per distrarre l’attenzione dei media locali e internazionali dalle faccende personali di Netanyahu e Mohammad bin Salman.
I nemici di Zarif si annidano tuttavia anche tra le fila degli ultraconservatori iraniani, che si sono sempre opposti all’accordo nucleare perché lo reputano disastrosamente pericoloso per la gestione e la continuità dei propri interessi economici. Queste figure accusano il ministro di aver svenduto gli interessi strategici nazionali senza alcun risultato tangibile sul piano dell’economia e della stabilità.
Emerge dunque l’intenzione di denunciare con questo gesto la gravità sia della crisi innescata dall’amministrazione Trump sia delle articolate macchinazioni nazionali che boicottano subdolamente qualsiasi sforzo del governo Rohani.
Quali scenari?
Anche se Rohani ha respinto le dimissioni, nelle istituzioni resterà una profonda cicatrice. Non è stata una scelta facile per il presidente. Accettare la richiesta di Zarif avrebbe confermato ufficialmente l’esaurimento di qualsiasi spazio di manovra diplomatico con gli Stati Uniti e i loro alleati regionali, alimentando al tempo stesso le speculazioni circa la possibilità e l’imminenza di un’escalation militare contro l’Iran. Rigettarla provocherà probabilmente un’escalation politica sul piano interno, dimostrando come la figura e le posizioni espresse dal ministro degli Esteri sono, per il governo, preminenti rispetto a ogni altra rivendicazione dell’ala più radicale dei conservatori.
L’addio di Zarif avrebbe potuto aprire la strada all’uscita della Repubblica Islamica dall’accordo sul nucleare, più volte chiesta dagli estremisti. Si tratterebbe di un’ipotesi certamente più facile da perseguire senza di lui. Specie perché il patto di fatto è già morto, visto che l’amministrazione Trump lo ha denunciato a maggio e che i firmatari europei, da soli, non possono tenerlo in vita. A dispetto dello “speciale meccanismo di pagamento” per aggirare le sanzioni Usa, strumento tanto timido quanto inefficace.
articolo pubblicato su Limesonline.it