La disfida energetica tra Iran e Arabia Saudita ha radici profonde, tanto quanto la rivalità geopolitica per il controllo strategico del Golfo Persico o, ancor di più, quella culturale e religiosa che vede Teheran e Riad capeggiare i due blocchi contrapposti del mondo islamico, la mezzaluna sciita a trazione iraniana da un lato, il blocco sunnita cui il Regno saudita vuole porsi come principale elemento di spinta dall’altro.

Nelle ultime settimane – complice anche il probabile capolinea dell’accordo sul nucleare iraniano dopo le scoperte dell’intelligence israeliana – tra i due paesi sono aumentati gli attriti in campo energetico. Il primo braccio di ferro è quello che si è consumato in seno all’Opec, il principale cartello dei paesi produttori di greggio, di cui Arabia Saudita e Iran sono i protagonisti, entrambi però con visioni differenti. In occasione dell’ultimo vertice del cartello, tenutosi a Gedda lo scorso aprile, i sauditi sono riusciti, ancora una volta, a far passare la loro linea, legata al mantenimento dei tagli alla produzione petrolifera per cercare di uscire una volta per tutte dal pantano dei bassi prezzi del petrolio e far rifiatare l’industria dell’oro nero. Una strategia che ha il consenso della Russia, un altro importante player energetico che, pur non facendo parte dell’Opec, sta concertando le proprie politiche energetiche con Riad. Per il Regno si è trattato di un successo diplomatico che fa seguito al tour internazionale del principe riformista saudita, Mohammed bin Salman, che è volato prima in Europa (Londra e Parigi) e poi a Washington nel tentativo di trovare una strada alla principale operazione che l’Arabia Saudita sta portando avanti in campo energetico: la vendita di una quota della più grande compagnia petrolifera del mondo la Saudi Aramco. Il vero gioiello del Regno dall’alto delle sue riserve accertate pari a 270 miliardi di barili dei 33,8 miliardi di dollari di utili netti macinati nei primi sei mesi del 2017. La quotazione di circa il 5 per cento del gigante pubblico saudita fa parte di un piano di riforme avviato da Salman per ridurre la dipendenza dal greggio, garantendo risorse aggiuntive pari 2 mila miliardi di dollari frutto della valutazione del colosso energetico. Ma per non mancare questi obiettivi i sauditi hanno bisogno di un deciso cambio di passo del prezzo del greggio – come ha fatto sapere il ministro del petrolio saudita Khalid Al Falih sarebbe ottimale riportare il barile tra gli 80 e i 100 dollari – per estrarre il massimo valore finanziario possibile dalla privatizzazione della Aramco.

Per Teheran, al contrario, un mercato allineato sui 100 dollari al barile sarebbe una prospettiva disastrosa. I prezzi bassi del greggio e la progressiva apertura ai gli investimenti internazionali dopo l’accordo sul nucleare siglato a Vienna, hanno spinto a gonfie vele la produzione petrolifera degli ayatollah. Nel 2017, le esportazioni di petrolio iraniano hanno raggiunto i 2,6 milioni di barili al giorno verso l’Europa e l’Asia a partire. Gli acquirenti asiatici hanno acquistato il 60 per cento delle esportazioni di greggio dell’Iran, mentre gli europei hanno acquistato il 40 per cento delle spedizioni. Cina, India, Corea del Sud e Giappone sono attualmente i maggiori clienti petroliferi dell’Iran in Asia. Le principali compagnie petrolifere internazionali, tra cui l’anglo-olandese Shell, la francese Total e l’italiana Eni sono rientrate in Iran per cercare di fare nuovi affari. Si tratta però di una crescita appesa al filo degli attriti della geopolitica. Sono ancora molte le aziende che esitano ad investire a causa delle minacce dell’amministrazione del presidente Donald Trump di stracciare l’accordo del 2016 ed imporre di nuovo sanzioni in cambio di restrizioni al programma di energia atomica del regime. Le previsioni di Teheran parlavano di 10 miliardi di dollari derivanti da investimenti stranieri in petrolio e gas, ma solo 1,3 miliardi di dollari sono stati impegnati prevalentemente dalla Cina, che ha sempre mantenuto la sua linea di equilibrio nei confronti di Teheran. Dopo un iniziale rialzo, la capacità di produzione di greggio iraniana si è fermata a 3,85 milioni di barili al giorno, secondo dati dell’Agenzia internazionale per l’energia (Aie), ben al di sotto delle stime previste dal ministro del petrolio iraniano, Bijan Zanganeh. Consapevole delle difficoltà, anche interne, che l’Iran dovrà affrontare nei prossimi mesi, il presidente della Repubblica Islamica, Hassan Rohani, lo scorso febbraio da Bandar Abbas – porto strategico per i traffici iraniani – ha lanciato un appello a tutti i vicini del Golfo, sottolineando che “tutti i paesi della regione possono pensare ad una grande unione per i settori dell’economia, dell’energia e del turismo”. Un messaggio caduto nel vuoto. Al contrario, l’Arabia Saudita si appresta a trarre il massimo vantaggio quando il prossimo 12 maggio il presidente Usa Donald Trump suonerà le campane a morto dell’accordo sul nucleare iraniano. Il primo passo molto probabilmente sarà lanciare una nuova offensiva per le risorse di idrocarburi del vicino Iraq. Ancora di recente Riad e Baghdad hanno siglato 18 memorandum d’intesa nel settore energetico, in occasione della Conferenza del petrolio e del gas di Bassora, Iraq e Arabia Saudita rafforzano la loro cooperazione guardando alla futura ricostruzione del paese e secondo quanto dichiarato dal ministro dell’Energia Saudita, Khalid al Falih, il colosso petrolchimico Saudita Sabic (Saudi Basic Industries Corp) dovrebbe aprire presto un ufficio in Iraq.

 

di Gabriele Moccia