Le dichiarazioni di Luigi Di Maio e di Alessandro Di Battista sul franco CFA hanno creato un caso diplomatico tra Roma e Parigi. Le conseguenze sono state la convocazione dell’ambasciatrice italiana all’Eliseo e la replica per niente distensiva dei francesi. Il rischio ulteriore è che la polemica alimenti in Italia i rancori populisti di chi non va oltre una scenata televisiva e che quindi è portato a credere che il franco CFA sia la vera ragione dell’immigrazione.
Il vicepremier Luigi Di Maio, intervenendo a un comizio ad Avezzano, ha detto:«La Francia continua ad avere colonie di fatto, con la moneta, che è il franco, che impone alle sue ex colonie». Per il giovane Ministro, il denaro versato alla Francia viene usato da Parigi «per finanziare il suo debito pubblico», risorse che secondo Di Maio «indeboliscono le economie di quei Paesi da dove, poi, partono i migranti». Ospite della trasmissione “Che tempo che fa”, Di Battista ha strappato in diretta una banconota da 10mila franchi CFA e ha affermato: «Finché non si strapperà questa banconota, che è una manetta, le persone continueranno a scappare e a morire in mare».
Il franco CFA è una moneta attualmente utilizzata da 155 milioni di persone e da 14 Paesi africani, di cui 12 ex colonie francesi. Tra questi ci sono Stati dell’Africa Occidentale: Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo; e sei Stati dell’Africa centrale: Camerun, Repubblica Centrafricana, Congo, Gabon, Guinea equatoriale e Ciad. Tali gruppi di Paesi costituiscono due unioni monetarie distinte e dunque quando si parla di franco CFA si fa riferimento a due valute diverse, entrambe agganciate all’euro. Stabilito nel 1945, quindi una quindicina di anni prima dell’indipendenza delle colonie francesi, il franco CFA è stato usato dalla Francia come mezzo per mantenere il proprio dominio coloniale. Oggi è uno strumento che lega le economie africane alle politiche monetarie europee e che contribuisce a garantire l’influenza francese sui vecchi possedimenti coloniali.
Il cambio è fissato sul valore di 1 euro = 655,96 franchi CFA e le autorità francesi sono parte dei meccanismi chiamati a definire le politiche monetarie dei Paesi della zona CFA (rappresentanti di Parigi fanno parte dei consigli di amministrazione delle banche centrali africane). Gli Stati africani che fanno parte del sistema sono tenuti a versare il 50% delle proprie riserve valutarie al Tesoro francese, ma come contropartita ottengono da questo la convertibilità illimitata delle valute con l’euro, credibilità internazionale e uno scudo all’aumento dell’inflazione, che resta sotto al soglia sicura del 3%, mentre negli altri Stati africani il tasso raggiunge la doppia cifra.
L’obbligo di versare le riserve valutarie a Parigi esiste, anche se il presidente francese Macron ha ribadito che gli Stati che usano il franco CFA sono liberi di abbandonarlo quando vogliono e di passare a una loro moneta, ipotesi però ancora lontana. Il punto è che queste risorse non servono a finanziare il debito pubblico francese, perché incidono su di esso in maniera molto marginale. Le riserve del franco CFA alla Banque de France – scrive Le Monde – equivalgono 10 miliardi di euro circa, 4,6 miliardi per la Cemac, secondo le stime di gennaio 2016; e 5,1 miliardi per l’UEMOA, stando ai dati del dicembre 2015. Il debito pubblico francese nel 2017, invece, arrivava a 2,2 mila miliardi di euro.
Altro punto: Il franco CFA non favorisce l’immigrazione in Italia perché dai Paesi che lo utilizzano nel 2018 sono sbarcati sulle coste italiane approssimativamente 2 mila migranti.
L’argomento secondo cui l’impoverimento dei Paesi con franco CFA favorisce immigrazione potrebbe valere per la Francia, ma la questione migratoria è ben più complessa. I migranti in Francia arrivano soprattutto da Stati come Sudan, Eritrea e Nigeria, che non sono parte del sistema monetario CFA, afferma ancora Le Monde. È vero che in Francia nel 2018 le domande di asilo di cittadini ivoriani sono aumentate del 44%, ma il tasso di crescita del PIL della Costa d’avorio nel 2016 era pari al 8,3% – dati del Fondo Monetario Internazionale – oggi sarebbe pari al 6%, scrive Le Monde. Ad ogni modo, l’economia non può essere ritenuta l’unica causa dell’immigrazione e proprio gli arrivi nei Paesi del Mediterraneo dalla Costa d’Avorio, attraversato in passato da una crisi politica, e dal Mali, segnato sì dalla povertà ma squassato dalle tensioni etnico-sociali e dagli attacchi dei militanti jihadisti, non fanno che dimostrarlo.
La moneta, figlia dell’era coloniale, è osteggiata da diversi economisti africani perché vista come un impedimento all’industrializzazione e allo sviluppo. La pensa così, ad esempio, anche l’economista Kako Nubukpo. Il franco CFA arricchisce le élite africane sostenute dalla Francia alle spese della popolazione locale, in questo senso sarebbe un mezzo di sfruttamento del neocolonialismo di Parigi. Se il franco CFA sia o no causa dell’impoverimento dei Paesi che lo utilizzano è una questione che alimenta un vasto dibattito internazionale. Solo su questo argomento Di Maio e Di Battista trovano il sostegno di esperti e di movimenti internazionali.
Nel 2010 l’economista senegalese Demba Moussa Dembélé scriveva su Le Monde diplomatique che il cambio fisso del CFA assicurava la stabilità e facilitava le transazioni finanziarie, ma l’obbligo per ciascuno Stato di versare il 50% di riserve valutarie al Tesoro francese effettivamente privava gli Stati africani di risorse preziose da investire a vantaggio della crescita. La super valutazione del franco CFA rispetto alle altre monete del continente penalizzava le esportazioni, scriveva ancora l’economista, per cui gli Stati africani parte del sistema avevano rapporti commerciali privilegiati con l’Europa rispetto al resto dell’Africa. Ancora oggi Bruxelles resta il maggiore partner commerciale dell’Africa occidentale e tale condizione se da una parte stimola l’integrazione a livello regionale, dall’altra non aiuta quella continentale. Inoltre, il franco CFA, continuava l’economista, non aveva generato gli investimenti diretti esteri promessi perché il flusso maggiore era andato a Paesi con risorse naturali più abbondanti: Costa d’Avorio per il petrolio, Mali per l’oro e Niger per l’uranio, fondamentale per le esigenze energetiche della Francia. Chi oggi investe in Africa è certamente Pechino che guarda in particolare ai crediti non agevolati e agli aiuti allo sviluppo. Ma non è la sola, a investire in Africa sono anche Brasile, India, Giappone, Canada, mentre Riad lotta col pugnale tra i denti per il “land grabbing”.
Una posizione di centro sul franco CFA la occupa l’ambasciatore senegalese in Russia Abdou Salam Diallo, intervistato da Sputnik France a fine novembre 2018. Il diplomatico ha riconosciuto che il franco CFA ha svolto un ruolo importante per le economie degli Stati dell’Africa occidentale, come ha fatto l’euro per l’Unione Europea. Diallo ha detto che la valuta ha favorito gli scambi tra gli 8 Paesi dell’Africa occidentale e ha aggiunto: «All’interno dell’unione monetaria non abbiamo avuto più problemi a importare perché la nostra moneta era garantita dal Tesoro francese. All’epoca le nostre economie erano troppo deboli e questo fu un grande vantaggio per noi. Oggi la questione da porre è se tale sistema debba continuare o no». Già nove anni fa Christine Lagarde, all’epoca ministro dell’Economia francese, aveva auspicato la fine del franco CFA pur riconoscendone il merito di aver protetto gli Stati africani dagli scossoni della crisi finanziaria globale. «I tempi sono cambiati», era stato però il commento di Lagarde.
Erminia Voccia
Giornalista professionista, campana, classe 1986, collabora con Il Mattino di Napoli. Laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso l’Università “L’Orientale” di Napoli. Master in giornalismo e giornalismo radiotelevisivo presso Eidos di Roma. Appassionata di Asia.
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