C’è uno Stato profondo dietro Putin

Come era ampiamente prevedibile, il partito del presidente russo Vladimir Putin ha vinto le elezioni per il rinnovo della Duma. Con il 99% delle schede scrutinate Russia Unita è in testa con il 49,82% dei voti stando ai dati della Commissione elettorale centrale. Seguono il Partito Comunista con il 19%, il Partito Liberaldemocratico con il 7,49% e Russia Giusta-Patrioti-Per la verità con il 7,42%. Anche il partito Persone Nuove potrebbe superare la soglia di sbarramento del 5% e attualmente è dato al 5,35% dei voti. Il Partito Comunista e l’oppositore Alexei Navalny, in carcere dopo il tentativo di avvelenamento subito lo scorso anno, hanno contestato i risultati. Mentre l’Unione europea, attraverso Peter Stano, portavoce della alto rappresentante Ue Josep Borrell, ha dichiarato che le elezioni hanno avuto luogo “in un clima di intimidazione nei confronti delle voci critiche e indipendenti e senza che ci fosse una missione di osservazione elettorale credibile”. Ecco un profilo del presidente russo tratteggiato nel libro Navalny contro Putin di Anna Zafesova.

Quando morì Konstantin Chernenko, nel 1985, gli agenti del Kgb di stanza a Dresda rubarono al loro capo una cassa di spumante della Crimea per festeggiare l’imminente fine del vecchio regime comunista. Vladimir Putin, poco più che trentenne, brindò insieme ai colleghi. Nell’ambiente chiuso di una delle «residenze» della rete di spionaggio sovietico all’estero, il «piccolo» – come veniva chiamato Putin, per distinguerlo da un collega omonimo – era il più scettico sul regime che serviva. Ammirava l’accademico Andrey Sakharov, esiliato a Gorky per dissenso, ed era disgustato dall’antisemitismo del sistema, scandalizzando i colleghi con affermazioni del tipo «gli ebrei sono persone assolutamente normali».

Forte della sua formazione universitaria giuridica, teorizzava con i colleghi attoniti che l’Urss faceva al mondo più paura degli Usa perché non possedeva una procedura democratica: per lanciare una guerra atomica il presidente americano avrebbe dovuto rendere conto al Congresso, e anche all’opinione pubblica, mentre un leader del Pcus in preda all’Alzheimer poteva schiacciare il bottone rosso senza che nessuno osasse contraddirlo.

Il «piccolo» – di nome e di fatto, visto che era agli esordi della sua carriera nello spionaggio, nella sua prima poco prestigiosa missione all’estero che si sarebbe rivelata anche l’ultima – non poteva sapere che quindici anni dopo avrebbe governato il Cremlino appena abbandonato da Chernenko, e vent’anni dopo avrebbe incontrato un americano di nome Bush, teorico della stessa idea, secondo cui un Paese libero è meno pericoloso per se stesso e per gli altri.

Né sapeva che trent’anni dopo avrebbe messo in gioco il suo potere, l’ambizione di un premio Nobel per la pace e le copertine del Time per annettere la penisola famosa per lo spumante dolce che stava bevendo. E altri cinque anni dopo avrebbe rivelato di essere pronto a schiacciare il bottone nucleare in caso di attacco: «Un mondo senza più la Russia può anche perire. E poi, noi [russi] finiremmo in paradiso come martiri, e loro [gli americani] creperebbero senza avere nemmeno il tempo di pentirsi», spiegò con orgoglio.

Tratto dal libro
Navalny contro Putin
di Anna Zafesova