Birmania

Sono state oltre 600mila le persone di etnia Rohingya fuggite dal Myanmar negli ultimi tre mesi. Un numero destinato ad aumentare alla luce della feroce repressione esercitata su questa comunità musulmana dalle forze di sicurezza birmane. Il tutto accade nel silenzio assordante del premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi. Gli appelli a porre fine alle violenze lanciati dalle Nazioni Unite e dalla comunità internazionale destinati a cadere nel vuoto ancora a lungo. Ecco un profilo di quella che l’ONU ha definito una delle minoranze più perseguitate al mondo.

 

Chi sono i Rohingya

I Rohingya sono una comunità musulmana con una forte identità etnica, religiosa e linguistica, ma senza Stato. Il Myanmar, Paese a maggioranza buddhista, si rifiuta infatti di riconoscere queste persone come cittadini. E nessun altro Paese vuole concedergli la cittadinanza. Ritenuti «una minaccia per la razza e la religione», da decenni i Rohingya sono vittime di politiche discriminatorie e di azioni violente da parte delle forze di sicurezza del Myanmar. Repressioni compiute in nome della sicurezza nazionale, per via di possibili infiltrazioni di gruppi estremisti tra i musulmani Rohingya, e solo recentemente la comunità internazionale ha iniziato a denunciare un tentativo di pulizia etnica nel Paese.

 

I numeri del fenomeno

Su 51 milioni di abitanti del Myanmar, i Rohingya sono poco più di un milione. Vivono nella regione del Rakhine State, che si estende lungo la costa ed è considerata una delle zone più povere del Paese, con un accesso limitato ai servizi di base e scarse possibilità di sussistenza per la popolazione. Secondo le stime del governo birmano, 750.000 persone risiedono nel nord del Rakhine State, nelle città di Maungdaw e Buthidaung, vicino al confine con il Banlgadesh. Mentre il resto della comunità vive nelle zone centrali e meridionali, dove si contano circa 120.000 sfollati interni, registrati presso i campi governativi.

Nel settembre del 2016, l’UNHCR (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) stimava che oltre 32.000 persone fossero registrate nei due campi di Kutupalong e Nayapara, in Bangladesh. Se gli spostamenti principali avvengono ancora sulla terraferma, in questi anni i migranti Rohingya hanno tentato di raggiungere la Malesia, l’Indonesia e il Bangladesh anche via mare, a bordo di barconi. Quando si fa riferimento al Mare delle Andamane, a sudest del Golfo del Bengala e parte dell’Oceano Indiano, i termini della discussione sono molto simili a quelli utilizzati per affrontare il tema dei flussi migratori nel Mar Mediterraneo. Rotte dei migranti, chiusura delle frontiere, trafficanti di uomini, network criminali. Con la differenza che, in queste acque, tutti i Paesi si sono rifiutati di portare avanti attività di soccorso in mare, pur avendo firmato almeno una delle convenzioni internazionali sul SAR (Search And Rescue).

Così, nel 2015, migliaia di persone sono state abbandonate in mare per giorni, respinte da tutti i governi della regione, in quello che l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni ha definito «un ping pong marittimo con le vite umane». Lo stesso Bangladesh, in alcune occasioni, ha rifiutato delle imbarcazioni negando ai profughi l’accesso agli aiuti umanitari.

 

Lo status legale dei Rohingya

 Le cause principali della fuga sono lo status legale incerto e le conseguenti repressioni subite nel Rakhine State. In Myanmar, in base a una legge approvata nel 1982 durante la dittatura militare, i musulmani Rohingya non godono della piena cittadinanza, in quanto non appartengono a una delle 135 minoranze etniche riconosciute. A partire dal 1982, molti di loro hanno ricevuto una carta provvisoria, che certificava la loro identità ma non la cittadinanza birmana. Da quel momento, è iniziato un processo di verifica dei documenti, al quale molti Rohingya si sono sottratti poiché imponeva di auto-dichiararsi Bengali (originari del Bangladesh, quindi, immigrati irregolari), di fatto rinunciando alla propria identità.

Dal giugno del 2016, quest’obbligo è venuto meno su indicazione di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991 e oggi consigliere di Stato della Birmania, ministro degli Affari Esteri e ministro dell’Ufficio del presidente. Tuttavia, se la minoranza musulmana non è più costretta a dichiararsi Bengali, non può nemmeno definirsi Rohingya. La stessa Aung San Suu Kyi, infatti, consapevole del sentimento anti-musulmano molto diffuso nel Paese, ha chiesto ai diplomatici stranieri di non usare questo termine, preferendo l’espressione più generica di «comunità musulmana nel Rakhine State».

 

Crimini contro l’umanità

Il mancato riconoscimento della piena cittadinanza preoccupa l’Arakan Project, organizzazione impegnata nel monitoraggio delle violazioni dei diritti umani in Asia, con particolare attenzione ai Rohingya. In tutta l’area, l’Associazione registra da tempo una malnutrizione diffusa, difficoltà nell’accesso all’educazione e al sistema sanitario, violenze fisiche nei confronti delle donne, arresti arbitrari di adulti e minori, sparizioni forzate e uccisioni. Inoltre, la presenza dei checkpoint rende difficili gli spostamenti interni, limitando la libertà di movimento delle persone.

Anche l’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani dell’Onu (OHCHR), in uno dei suoi ultimi rapporti, ha registrato un livello di violenza contro i Rohingya senza precedenti. Sulle base delle testimonianze raccolte, l’ONU ha parlato esplicitamente di «crimini contro l’umanità» commessi dalle forze di sicurezza birmane.

Di Alice Passamonti