Dal marzo 2011 il territorio siriano è caratterizzato da una guerra civile che vede il regime di Bashar al-Assad scontrarsi con un’opposizione frammentata. Le maggiori forze in campo ad oggi contro il governo siriano sono il Free Syrian Army, lo Stato Islamico e le milizie curde come il PKK e i Peshmerga. Gli scontri armati sono stati inizialmente sporadici per poi trasformarsi in una lunga guerra civile. Questa si è sviluppata in una dimensione settaria della lotta, mettendo in luce i rapporti conflittuali tra la maggioranza sunnita e la minoranza alauita all’interno della Siria.

Il conflitto, la cui origine è da rintracciare nelle contraddizioni politiche, sociali, etniche, culturali e religiose interne al Paese, si è presto rivelato un’estensione di rivalità regionali e internazionali, tra le quali spiccano quelle tra USA e Russia, Iran e Israele, Iran e Arabia Saudita, Turchia e movimento nazionale curdo, in una logica di politica di potenza.

Il principale nemico dall’inizio della guerra ad oggi è stato lo Stato Islamico. Le “Primavere arabe” in Iraq e Siria hanno condotto a una situazione di debolezza del regime in cui Abu Bakr al-Baghdadi, leader dal 2010 di “Al-Qaida in Iraq”, è riuscito ad inserirsi proclamando il califfato dell’ISIL e dichiarando le proprie ambizioni espansionistiche anche verso il Levante, l’area del Mediterraneo Orientale (Siria, Giordania, Palestina, Libano, Israele, Cipro). Oggi il ruolo dell’IS in Siria è stato fortemente ridimensionato dalle sconfitte militari sul terreno e la riconquista di gran parte dei suoi territori. D’altra parte il Free Syrian Army e le milizie curde continuano ad avere un peso importante nel conflitto grazie anche alla copertura internazionale di cui godono.

Fattori interni

Il regime di Bashar Al-Assad e i suoi oppositori: la dicotomia Sciiti – Sunniti

La guerra in Siria è il risultato di più fattori, in primis di matrice storico-politica e poi, di conseguenza, di natura religiosa e settaria. L’attuale divisione etnico-sociale, infatti, affonda le sue radici nella suddivisione statuale gestita da Francia e Gran Bretagna su mandato della Società delle Nazioni dopo la fine della Prima guerra mondiale con l’accordo segreto di Sykes-Picot e la successiva politica coloniale di divisione su base etnica e religiosa. Tuttavia, il conflitto odierno non può essere compreso basandosi soltanto su identità settarie preesistenti e sulla divisione fra sunniti e sciiti; altrettanti fattori interni politico-economici hanno svolto un ruolo rilevante nella guerra civile siriana:

– In primo luogo, le proteste anti-regime, viste nella più ampia ondata regionale di mobilitazioni sociali e politiche stimolate dalla primavera araba, erano una risposta ad un regime autoritario;

– In secondo luogo, le manifestazioni iniziali del 2011 nacquero da un crescente senso di frustrazione per le crescenti disuguaglianze sociali e il malgoverno all’interno della Siria;

– In terzo luogo, le condizioni di vita della classe medio-bassa e della classe operaia siriana. Questa dinamica di sviluppo ineguale, corruzione, e diseguaglianza centro-periferia spiega in parte le radici della rivoluzione in Siria.

A queste linee di faglia vanno aggiunte le divisioni etniche, dato che la maggioranza araba includeva i ¾ della popolazione totale e le minoranze etniche si presentavano geograficamente concentrate e dotate di una forte identità. Inoltre vanno considerate la frammentazione religiosa e un’interpretazione multidimensionale del Corano: oltre ad una consistente minoranza cristiana era presente un’importante suddivisione interna alla maggioranza islamica. Il 10% della popolazione era alauita, un gruppo vicino allo sciismo di cui fa parte anche la famiglia Assad.

Fattori esterni

1. L’intervento russo: obiettivi e limiti della politica estera del Cremlino

Il 2015 ha segnato il raggiungimento dell’acme delle ribellioni e un punto di svolta all’interno del conflitto siriano. La caduta definitiva di Assad, infatti, viene scongiurata dall’intervento militare russo nel settembre di quell’anno, che complice un accresciuto supporto iraniano, ha consentito al Governo di riguadagnare terreno fino alla riconquista delle città di Palmira ed Aleppo nel 2016. La Russia è intervenuta in Siria per tre ragioni, al contempo di carattere strategico-militare e politico-diplomatico:

Garantire a ampliare la propria presenza marittimo-militare nel Mediterraneo, attraverso il porto di Tartus, unica base mediterranea rimasta a Mosca dopo la dissoluzione dell’URSS.

Cercare di porsi come nuovo mediatore in Medioriente, concertando il suo intervento con attori chiave nella regione, come Israele ed Egitto. In questa prospettiva Mosca ha organizzato i Colloqui di Astana che, paralleli a quelli fallimentari di Ginevra, hanno visto seduti allo stesso tavolo Turchia e Iran.

Contrastare l’ISIS e le fazioni islamiste anti-Assad, in funzione di una difesa interna rivolta sia alle popolazioni musulmane del Caucaso settentrionale, particolarmente sensibili al radicalismo sunnita, che al rischio di foreign fighters e alla proliferazione del jihadismo, come dimostrato dagli attentati di Volgograd e Pietroburgo. La Russia, inoltre, ha cercato di prendersi il merito della vittoria sul Califfato, oscurando l’operazione Inherent Resolve condotta dagli Usa.

Tuttavia, la politica estera russa si è rivelata piuttosto ambigua negli ultimi anni. Sino al luglio 2016, Mosca ha condotto una campagna contro il governo di Ankara, considerato uno dei maggiori sponsor del terrorismo, e ha garantito invece un supporto diplomatico alla regione curda del Rojava (Nord della Siria), sostenendo una sua autonomia nel futuro assetto. Allo stesso tempo, poi, dopo il tentato golpe in Turchia dell’estate 2016, Mosca ha sfruttato l’isolamento di Erdogan, lasciandogli nformalmente mano libera contro i Curdi in cambio dell’accettazione turca del ruolo di Russia e Iran in Siria e in parte anche della permanenza di Assad.

2. Il piano iraniano in Siria: obiettivi e strategia

Il secondo principale alleato del governo siriano è la Repubblica Islamica dell’Iran. Seppur con obiettivi strategici diversi da quelli russi, per Teheran la difesa di Bashar al-Assad rientra nella strategia di una affermazione regionale volta alla creazione di un «corridoio pan-sciita» a guida iraniana, inoltre la guerra civile siriana ha rappresentato una grande occasione geopolitica per trasformare la Siria in uno Stato de facto satellite. La strategia di intervento di Teheran si è sviluppata lungo tre direttrici fondamentali: (1) la formazione e l’invio di milizie sciite di differenti nazionalità e provenienze, (2) l’assunzione del comando di interi reparti dell’Esercito regolare siriano, (3) la leva etno-demografica. L’Iran ha favorito un massiccio reinsediamento di popolazione sciita nelle aree al confine con il Libano.

Tuttavia il ruolo iraniano in Siria è fonte di preoccupazione anche per l’alleato russo, che continua a costituire un fronte comune con Teheran, ma è cosciente che, in funzione di una soluzione diplomatica, il controllo iraniano su Damasco rappresenta l’ostacolo principale ad un negoziato internazionale. Oltre a suscitare le preoccupazioni di Israele, Arabia Saudita e della stessa Turchia, il ruolo dell’Iran è considerato problematico anche dalla nuova amministrazione USA, visto il controverso rapporto di Teheran con organizzazioni terroristiche.

3. La politica americana di Trump

Sotto la Presidenza Trump lo Stato Islamico è stato sconfitto ed il Presidente ha annunciato il prossimo ritiro delle truppe a inizio aprile. Il progetto di disimpegnarsi dalla Siria si scontra tuttavia con tre problemi: (1) il denunciato ricorso ad armi chimiche da parte del Governo; (2) la situazione di perdurante conflitto; (3) l’influenza guadagnata dall’Iran sulla Siria che il Presidente Trump vuole contrastare su incoraggiamento anche degli alleati, in primis Israele e Arabia Saudita. Inoltre Washington non vuole lasciare a Mosca l’onere, ma anche l’onore, di fare da mediatore tra le parti e divenire dunque il punto di riferimento diplomatico nella regione. Queste esigenze contrastanti hanno fatto sì che anche la politica americana in Siria sembrasse ambivalente e mutevole. La collaborazione tra Mosca e Washington appare imprescindibile per una ricomposizione pacifica della questione siriana e dello scacchiere mediorientale. Mosca e Washington dovranno a loro volta mediare tra le ancor più diverse posizioni degli altri attori coinvolti: Turchi e Curdi, Iraniani e Israeliani, Iraniani e Sauditi. In mancanza di una cooperazione tra Russia e Usa, la Siria è condannata a rimanere in una stagnante situazione di “guerra per procura“.

4. Turchia: il gioco di Erdogan in Siria e la questione curda

La Turchia è entrata nel conflitto siriano gradualmente: prima attraverso il sostegno finanziario e logistico, poi militarmente e infine, come broker di una soluzione negoziale della crisi insieme a Russia e Iran nel processo di Astana. Il coinvolgimento di Ankara nella difesa del suo confine meridionale è dunque sempre più pregnante e mira alla conclusione del conflitto per tamponare l’ondata di rifugiati siriani, già oltre tre milioni e mezzo; tuttavia non è disposta ad accettare una soluzione che possa costituire una minaccia alla sua sicurezza e integrità territoriale e nell’ottica turca la minaccia principale ha un nome ben preciso ed è rappresentata dalle forze curde.

Allo scoppio del conflitto, infatti, la minoranza curda si è riunita sotto le insegne del PYD (Partito dell’Unione Democratica) e della sua ala militare YPG (Unità di Protezione Popolare) che ha coalizzato attorno a sé varie milizie arabe nelle Forze Democratiche Siriane (FDS) e le azioni militari curde contro lo Stato Islamico hanno avuto un ruolo fondamentale nell’impedire all’ISIS di espandersi a nord-est. Convergendo sulle posizioni di Russia e Iran, nell’ultimo anno la Turchia ha optato per una “politica del male minore”, cercando così di assicurarsi un maggiore peso negoziale sulla questione curda con gli altri attori in campo.

5. Il possibile coinvolgimento israeliano nella guerra siriana

La scomparsa dell’entità territoriale dello stato islamico, ha determinato l’inizio dell’ultima fase del conflitto siriano: quello della creazione delle sfere d’influenza che potrebbe provocare una grande guerra mediorientale viste le rivendicazioni della Turchia di Erdogan, la corsa al primato geopolitico e religioso fra Iran e Arabia Saudita, e, geograficamente un po’ più distante, il futuro della Libia e delle sue ricchezze energetiche.

Israele finora è rimasto esterno a queste dinamiche. Il principale obiettivo di Israele rimarrebbe quello di annettere i territori occupati e contrastare la nascita di uno Stato palestinese, tuttavia la vicinanza del conflitto e la percezione del pericolo derivante dalla presenza di militari iraniani al confine con la Siria e con il Libano, rappresentano la principale tentazione di Hezbollah al coinvolgimento di Israele nella guerra siriana.

Valutazioni conclusive: l’interesse nazionale dell’Italia

Il quadro siriano è ulteriormente mutato durante gli ultimi mesi:

1. Quella che sembrava una criticità pronta ad estendersi, (le tensioni sul versante del Golan tra Israele e il governo di Damasco causate dalla presenza di truppe sciite) sembrerebbe rientrata con un’intesa mediata dall’attiva diplomazia russa. Questa ha permesso alle forze governative siriane, compresa la forza Tigre, di operare sul versante meridionale fino alla ripresa di Daraa senza che Israele interferisse e senza che Hezbollah fosse coinvolta in questa operazione.

2. Il Consiglio democratico siriano che governa la provincia di Raqqa dalla città di Ain Issa si è reso disponibile a trattare con il governo di Damasco. Quest’organizzazione è il braccio politico delle Forze democratiche siriane (SDF), alleanza armata e addestrata da Washington formata da combattenti curdi, arabi e turcomanni.

3. Cento capi-tribù hanno firmato un documento con Damasco che li impegna a «cacciare le truppe straniere», cioè americane, dai territori collocati al di là dell’Eufrate.

Da quello che trapela gli avamposti statunitensi in territorio siriano potrebbero spostarsi sulla sponda irachena già nei prossimi mesi se gli iraniani lasceranno anche loro il Paese.

Abu Kamal è stata al centro di queste tensioni, la città è infatti collocata sul corridoio sciita che collega Teheran a Beirut passando da Baghdad e Damasco. Riconquistata dall’Esercito arabo siriano e sottratta allo Stato Islamico in collaborazione con le milizie sciite vicine all’Iran, questa città altamente strategica ai confini con l’Iraq è stata colpita da un raid, attribuito dalla CNN ad Israele ma probabilmente messo in atto dalla coalizione internazionale.

Per la Casa Bianca si tratta di un atto militare che mira a mettere pressione sul governo di Teheran e a porre sul tavolo dei negoziati il ritiro di entrambe le nazioni dal Paese.

Il Cremlino potrebbe giocare un ruolo diplomatico fondamentale tra i due attori, i quali in questo momento seguono agende geopolitiche diverse ma estremamente connesse tra loro.

Rimane aperto solo il fronte di Idlib, alla frontiera con la Turchia. Su quel fronte sembra che la partita si giochi ad Astana, dove a partecipare ai negoziati come protagonisti sono iraniani, russi e turchi, e dove gli americani non ricoprono nemmeno il ruolo di osservatori.

Appare chiaro che gli interessi diplomatici delle nazioni in campo non passano da tavoli come quello di Ginevra, ma piuttosto vengono gestiti da intese tra due o tre attori per volta che indirettamente vanno ad influenzarsi vicendevolmente.

Perno centrale, passivo o attivo, di ogni gioco diplomatico, risulta al momento il governo di Damasco: fedele alleato dei russi, amico dell’Iran ma contemporaneamente garanzia di un’interlocuzione stabile per Israele in uno scenario caratterizzato da attori instabili. Inoltre Assad rappresenta una potenziale valvola di sfogo per la diplomazia statunitense per la concessione di forme di autonomia all’alleato curdo di fronte al muro eretto dalla Turchia. Ad oggi il governo di Damasco deve essere considerato un attore centrale per la futura stabilizzazione del territorio siriano.

Una “balcanizzazione” della Siria sembra un’ipotesi lontana rispetto al passato Al fine di evitare il riaccendersi di conflitti nella regione, la comunità internazionale dovrebbe tendere ad un progressivo ritiro di personale straniero americano e iraniano e all’avviamento della ricostruzione, non solo economica ma anche politica, pretendendo l’apertura di una fase di riforme politiche in cambio di sostegno economico.

Un rifiuto occidentale di una simile strategia non negherebbe la possibilità ad Iran e Russia di continuare a sostenere il governo di Damasco costringendo l’Occidente ad un infruttuoso ostruzionismo.

Per l’Europa e per l’Italia i rischi maggiori restano quelli di tipo economico e umanitario e quelli legati al terrorismo: milioni di profughi spingono per raggiungere l’Europa che nel frattempo spende miliardi di euro per trattenerli in Turchia e un riaccendersi della lotta islamista potrebbe rappresentare nuova linfa per cellule o singoli, aumentando il rischio di attentati.

Di interesse strategico per l’Italia sarà il futuro sfruttamento dei giacimenti di gas naturale rinvenuti e comunque dei possibili corridoi energetici che potrebbero passare per la regione.

 

di

Lejdi Dervishi, Livia Di Bello, Giuseppe Di Giorgio, Lucia Dilio, Damiano Martinelli e Diana Mecchia

XII edizione del Master in Intelligence e Sicurezza della Link Campus University