I primi cadaveri che vidi in un bosco erano di quelli che avevano tentato la fuga da Srebrenica: una donna si era impiccata a un albero pur di non essere presa, un uomo si era fatto saltare in aria con una granata. 25 anni dopo quel massacro 8mila morti ci ricordano come eravamo e come siamo oggi.

I primi cadaveri che vidi in un bosco erano di quelli che avevano tentato la fuga da Srebrenica: una donna si era impiccata a un albero pur di non essere presa, un uomo si era fatto saltare in aria con una granata.

Il generale serbo Ratko Mladic entrò a Srebrenica la sera dell’11 luglio del 1995, i caschi blu olandesi avevano già consegnato le armi e gli aerei della Nato, che insieme a loro avrebbero dovuto proteggere l’enclave musulmana della Bosnia, restarono a terra. La Nato decise il bombardamento aereo delle postazioni serbe solo il 30 agosto, dopo la caduta del villaggio musulmano di Zepa e soprattutto la nuova strage al mercato di Sarajevo, il 28 agosto, quando una granata serbo-bosniaca fece 37 vittime civili.

Fu uno dei più gravi fallimenti della comunità internazionale che diede il via al peggiore massacro in Europa dalla seconda guerra mondiale: 25 anni dopo lo ricordiamo non soltanto perché le ferite restano aperte ma anche per rammentarci che cosa è accaduto dalle nostre parti non tanto tempo fa, tra di noi, nella progredita Europa. Soprattutto in questa fase in cui la xenofobia, i partiti nazionalisti e i conflitti etnici tornano a rialzare la testa.

I serbi separarono gli uomini dalle donne e cominciarono le esecuzioni che andarono avanti per una settimana. Fu così che i soldati dei Belgrado e le milizie uccisero a sangue freddo più di ottomila musulmani, traditi dalle Nazioni Unite e dall’Europa. Quarantamila persone furono deportate, centinaia di donne vennero sistematicamente violentate: nella disattenzione generale di una calda estate si consumò un genocidio, come lo ha definito ufficialmente il tribunale dell’Aja per i crimini nella ex Jugoslavia.

L’unica cosa che allora riuscimmo a fare fu raccogliere le testimonianze dei sopravvissuti: una settimana dopo la strage a migliaia raggiunsero Tuzla, feriti, disperati, affamati, lasciati a marcire per giorni sulla pista incandescente dell’aereoporto. Nella lunga marcia tra le montagne della Bosnia alcuni, ridotti alla follia, si uccisero facendosi saltare in aria con le granate pur di non essere catturati vivi. Ma nessun racconto, per quanto macabro e lancinante, smosse le cancellerie europee.

Srebrenica, come Zepa e Goradze, le altre aree “protette” dell’Onu, furono sacrificate alla realpolitik, alla necessità di mettere fine alla guerra di Bosnia con i suoi 200mila morti. Pochi mesi dopo, in dicembre, venne firmata la pace di Dayton con Slobodan Milosevic, l’uomo che nell’89 in Kosovo, la terra dei monasteri e degli uccelli neri, aveva dato il via alla pulizia etnica dei Balcani.

Srebrenica, lungo la strada che cammina stretta tra la montagna e il corso della Drina, oggi appare ancora più piccola di quella che era, e non è soltanto un impressione: allora ci vivevano in 40mila, adesso sono rimasti in diecimila. Pochi sono gli abitanti originari tornati qui, in un posto dove il 50% degli uomini sono disoccupati. La gran parte della popolazione è costituita da serbi, non da musulmani, cittadini di Iliac, il sobborgo di Sarajevo da dove vennero trasferiti alla fine della guerra. Srebrenica è un punto sulla carta di uno degli stati più minuscoli d’Europa, la Repubblica Sprska, l’altra entità che insieme alla federazione croato-musulmana forma l’attuale Bosnia-Erzegovina. Le vallate dei serbi sono suggestive ma è tra queste abetaie fatate, in una dimensione rurale e primitiva, che Mladic e Karadzic, accompagnati da un corteo di intellettuali e politici, con i riti dell’ipernazionalismo razzista risvegliarono lo spirito maligno dei massacri etnici alimentati non soltanto dalle differenze religiose e culturali ma soprattutto dalla brama di potere e di denaro: la guerre balcaniche sono state guerre criminali, di bande, di clan, che hanno manipolato le popolazioni.

LEGGI ANCHE: SREBRENICA, ERGASTOLO PER MLADIC

Srebrenica non è soltanto uno dei simboli della disgregazione della Jugoslavia ma anche del fallimento di un progetto più generale, quello della convivenza e della solidarietà, al di là delle etnie e delle religioni, nello Stato moderno. Tra l’altro il dialogo quasi impossibile tra Belgrado e Pristina sul Kosovo ci ricorda che la questione balcanica è tutt’altro che finita.

Il problema è che non c’è stata alcuna elaborazione del conflitto e questo vale non solo per Srebrenica, ma per tutta la Bosnia Erzegovina e buona parte della regione. La dimensione che ha assunto la città di Srebrenica, a livello internazionale, ha aiutato più la propaganda che non il superamento della guerra che non c’è mai stato. Il risultato è che ognuna delle comunità vive immersa nel proprio incubo, nella propria narrazione.

Quanto è accaduto nei Balcani ci riguarda direttamente e non solo per vicinanza geografica. A Srebrenica oggi si arriva e si riparte subito per una fugace visita al memoriale di Potocarì, la vecchia fabbrica di accumulatori alla periferia della città dove avvenne l’eccidio. Il memoriale è un grande semicerchio con le steli bianche e una scritta: “8.372…Numero complessivo delle vittime che non è ancora concluso”. Le commemorazioni, i pentimenti, le scuse, insieme al profluvio della retorica, non risarciscono l’indifferenza di allora.

Pubblicato su Quotidiano del Sud