IS rivendica attacco contro i soldati italiani in Iraq

«Con l’aiuto di Dio, soldati del Califfato hanno colpito un veicolo 4X4 con a bordo esponenti della coalizione internazionale crociata ed esponenti dell’antiterrorismo peshmerga nella zona di Kifri, con un ordigno, causando la sua distruzione e ferendo 4 crociati e 4 apostati». Con questa formula il gruppo Stato Islamico ha rivendicato la responsabilità dell’attacco ai militari italiani avvenuto domenica scorsa a Kirkuk, nel nord dell’Iraq. La rivendicazione è stata trasmessa dall’agenzia Amaq. Come ha scritto su Twitter Rita Katz, direttrice di “Site”, lo Stato Islamico ha rivendicato ieri di aver ferito 4 persone, una in meno rispetto alle dichiarazioni ufficiali. Il comunicato- fa notare ancora Rita Katz – non menziona in particolare i militari italiani, ma li definisce “crociati”.

 

L’attacco in quattro punti dal Corriere della Sera a firma di Carlo Biffani e Guido Olimpio:

Primo. L’episodio ha coinvolto un distaccamento delle forze speciali – Task Force 44 – , dispositivo congiunto composto da membri del Nono Reggimento Incursori Col Moschin e da specialisti del GOI della Marina Militare. Personale impegnato in un’operazione di “Mentoring & Training”. Dunque addestramento delle unità curde nella preparazione tecnica e nell’elaborazione di tattiche adeguate, ma in qualche caso anche un’assistenza ravvicinata durante missioni particolari. Interventi coordinati con i comandi locali ed alleati. Profili di missione rischiosi.

Secondo. L’Isis ha rivendicato il gesto – con il solito comunicato vago – affermando di aver colpito un mezzo 4×4 dei “crociati”. Non è però chiaro se i soldati fossero a bordo o si trovassero all’esterno, come sostenuto da alcuni fin da ieri. Di solito i militari si muovono su Suv e su mezzi particolarmente protetti contro le esplosioni, come i Lince, rivelatisi spesso molto efficaci. La deflagrazione ha investito i cinque militari causando ferite serie, in particolare agli arti inferiori. Se dopo oltre 24 ore non è trapelata una dinamica chiara è perché ci sono certamente ragioni di riservatezza per tutelare corpi d’elite in situazioni difficili, ma anche la necessità di comprendere bene cosa sia accaduto.

Terzo. I gruppi guerriglieri, in alcune situazioni, preparano l’imboscata in modo accurato. C’è la carica esplosiva, a volte seguita dal tiro d’armi da fuoco sfruttando l’effetto sorpresa. Un agguato che richiede una ricognizione, il dispiegamento di un nucleo, l’osservazione e infine il colpo. Per ora non si hanno elementi su una sequenza di questo tipo. I soldati potrebbero allora aver attivato un’IED – ordigno improvvisato – durante la fase di rientro – quindi evento accidentale – oppure durante una ricognizione specifica. Cercavano armi? C’era una segnalazione che ha richiesto l’intervento insieme ai peshmerga? E’ una tesi da considerare. Lo scenario alternativo è quello di una mina fatta detonare con un radiocomando, modus operandi abbastanza consueto e sempre più perfezionato in questo teatro.

Quarto. Le trappole, non di rado, sono piazzate a protezione di depositi, nascondigli, rifugi. Ma possono anche esserci situazioni dove i terroristi lasciano un’esca per attirare una pattuglia e poi sorprenderla con bombe ben celate lungo i percorsi di avvicinamento. Un sentiero, uno sterrato, un canalone possono riservare brutte sorprese. Di nuovo: potremmo essere davanti ad un agguato, studiato dagli insorti, ma anche all’episodio casuale. E sarà importante capire se i nostri soldati avessero già agito in questo settore. Altra domanda riguarda l’eventuale lavoro di intelligence condotto dai sabotatori. E’ probabile che abbiano seguito da lontano altre attività di bonifica dei contingenti occidentali, preso nota di mosse e “regole di ingaggio”, per poi mettere in atto un piano letale.