Due sono le notizie più rilevanti emerse dal summit NATO di Bruxelles andato in scena in questo difficile luglio europeo. L’Alleanza Atlantica è più che mai a trazione esclusivamente americana, e Donald Trump ha ottenuto ciò che desiderava dagli alleati. Tutto come da copione, dunque. Unica pecca dell’incontro, la sempre più evidente debolezza dell’Unione Europea, stigmatizzata dall’imbarazzo generale per le condizioni in cui versa il suo presidente della Commissione, Jean Claude Juncker, affetto da una malattia – l’alcolismo – che ormai non riesce più a nascondere, e che potrebbe persino minare i rapporti fiduciari all’interno delle istituzioni europee.
Ma, per restare al trionfo di Trump, basta citare le sue stesse parole, peraltro rispolverate dalla campagna elettorale, poiché corrispondono in toto alle medesime dichiarazioni già rese in precedenti occasioni sul tema della difesa dell’Europa. Il punto è sempre il solito: i soldi.
“Molti Paesi si sono impegnati a spendere di più. Sono molto felice del risultato raggiunto” ha riferito un trionfante presidente, durante una conferenza stampa non programmata a margine del summit. “Ho detto agli alleati che non ero contento delle spese della difesa. Gli Usa pagano il 90% e non è giusto, ma oggi abbiamo una NATO più forte di due giorni fa, perché tutti si sono impegnati ad aumentare le spese della difesa. E anche velocemente”.
Le ragioni per le quali l’America non ha più intenzione di finanziare le spese militari ai confini orientali dell’Europa – dove l’instabilità dell’Ucraina post Yanukovich (il presidente detronizzato dalla rivolta popolare, sfociata in violenza e poi degenerata in una guerra civile) e le paure di Polonia e Paesi Baltici nei confronti della Russia consiglierebbero invece di rinforzare la difesa dei confini, almeno secondo Jens Stoltenberg, Segretario generale dell’Organizzazione del Trattato Atlantico – sono puramente di budget e di contratto.
Secondo il Trattato, infatti, ciascun Paese aderente alla NATO si obbliga a spendere fino al 2% del proprio PIL nella difesa militare comune. Ma spesso, ed è anche il caso dell’Italia, tale percentuale di spesa non viene neanche avvicinata. Roma spende circa l’1,1% e per questo, insieme ad altri 11 Paesi, è stata oggetto delle rivendicazioni della contabilità di Washington DC. A oggi, solo Grecia (2,38%), Regno Unito (2,21%), Estonia (2,16%) e Polonia (2,00%) rispettano e mantengono costante tale parametro. Per questo, il presidente degli Stati Uniti ha chiesto a tutti gli altri di fare di più, in ossequio agli accordi stabiliti in seguito alla fine della Seconda Guerra Mondiale, in quel il 4 aprile 1949 che segnò la nascita dell’Organizzazione.
Ma Trump, da buon negoziatore, è voluto andare oltre e, per ottenere il “giusto prezzo”, ha proposto di spendere non più il 2 ma addirittura il 4% del PIL. La portavoce della Casa Bianca Sarah Sanders si era espressa così sul tema: “Il Presidente ha proposto che i Paesi non soltanto rispettino gli impegni di spesa per la difesa del 2 per cento del Pil ma che li accrescano fino al 4 per cento”. Era persino circolata una voce secondo cui il presidente degli Stati Uniti aveva minacciato l’uscita dalla NATO se non si fosse raggiunto un accordo ed è una tipica “spacconata” cui Trump non è esente. Ma, in fondo, si è trattato di un gioco al rialzo tipico della mentalità imprenditoriale di Wall Street.
Tutto è dunque rientrato subito, anche grazie ai buoni uffici di Angela Merkel. La Cancelliera, primo Paese nel mirino americano per ragioni di peso politico e di vicinanza (anche ma non solo geografica) a Mosca, ha accettato di buon grado la proposta Trump. Il quale aveva preventivamente twittato: “Questi Paesi hanno iniziato ad aumentare le loro spese per la difesa da quando sono arrivato, ma la Germania spende l’1 per cento e gli Stati Uniti il 4 e l’Europa beneficia delle NATO molto di più degli Stati Uniti”.
Dunque, il summit segna una riga nei bilanci dell’Unione per quanto riguarda le spese militari e ricompatta gli alleati in vista del più che strategico summit di Helsinki che si terrà il 16 luglio tra Donald Trump e Vladimir Putin. Appuntamento storico, che vede così il presidente americano rafforzato dopo aver battuto i pugni sul tavolo dell’Alleanza Atlantica e aver ottenuto una promessa di maggiori sforzi bellici. Un memento, il suo, e una prova di forza che il presidente doveva a tutti i costi ottenere per negoziare dal piano di superpotenza nei confronti di una Russia che negli ultimi anni, complice la dottrina Obama, si è geopoliticamente rafforzata e ha attratto a sé due Paesi NATO come Germania e Turchia grazie agli accordi energetici. Ben presto, infatti, la Russia bypasserà l’Ucraina e rifornirà l’Europa attraverso i flussi che portano il gas naturale russo sfruttando la rotta nord, che passa per il Baltico e scende in Germania; e sfruttando la rotta sud, secondo il progetto che punta a far transitare il gas in Bulgaria attraverso la Turchia.
Ecco una sfida ben più pericolosa per Donald Trump, che tuttavia non sarà oggetto dei negoziati con Putin, i quali verteranno probabilmente più su Libia e Siria, per cominciare. “La Russia non è un nemico, né un amico. Al momento, è un competitor” ha sentenziato il presidente negli stessi giorni del summit NATO. L’ombra di Mosca, insomma, ancora oscura e s’intromette tra le certezze dell’Europa.
Articolo pubblicato sulla rubrica Oltrefrontiera di Panorama.it
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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