Rapporto Mueller

Tra pochi giorni, sabato 20 gennaio, Donald Trump “celebrerà” il primo anno di una presidenza che sarebbe riduttivo definire travagliata. Dopo una campagna elettorale durante la quale i due contendenti – da una parte il tycoon newyorchese, dall’altra la candidata democratica Hillary Clinton – più che affrontarsi su temi politici si sono scambiati insulti sanguinosi, le elezioni del novembre 2016 hanno insediato alla Casa Bianca un presidente appoggiato e sostenuto da una metà dell’elettorato e odiato e disprezzato dall’altra metà.

Forti del sostegno quotidiano della stragrande maggioranza dei media americani, i democratici – contando sul sostegno di importanti settori dell’Amministrazione, primi tra tutti l’FBI e gli apparati di intelligence – più che contrastare il presidente eletto sul piano politico, hanno tentato in ogni modo di percorrere la scorciatoia dell’impeachment, della sua destituzione, invocando la sua messa in stato d’accusa o per gravi reati come l’ostruzione alla giustizia o addirittura – è notizia di pochi giorni fa – perché sostanzialmente «incapace di intendere e di volere».

Il cosiddetto caso Russiagate – vale a dire le presunte collusioni tra Trump, membri del suo staff ed emissari del presidente russo Vladimir Putin – ha innescato un’inchiesta che si trascina stancamente da 18 mesi (prese le mosse nel luglio 2016, in piena campagna elettorale) e che difficilmente porterà a qualche risultato nonostante l’impegno dell’FBI nella ricerca di prove contro il presidente.

È bene ricordare che il Russiagate venne innescato dalla diffusione di un rapporto, spacciato all’inizio come un report dell’intelligence, elaborato da un ex agente segreto britannico dell’MI6, Christopher Steele, su incarico della Fusion GPS, un’agenzia di comunicazione che a sua volta lavorava per Hillary Clinton e per il Partito Democratico americano.

Il dossier di Steele – contenente notizie false o non verificate che arrivavano a descrivere orge nelle quali Trump si sarebbe dilettato a Mosca – venne utilizzato dall’FBI, per esplicita ammissione dell’allora suo direttore James Comey, come la “road map” per un’inchiesta federale ai danni dell’allora candidato repubblicano. Il documento, dopo essere stato sapientemente fatto filtrare dallo stesso Comey alla stampa, ha rappresentato la base per una campagna di accuse sempre più gravi contro il nuovo inquilino della Casa Bianca.

I risultati ottenuti nel primo anno di presidenza

In un clima politico sempre più surriscaldato, grazie anche alle continue intemperanze verbali di Trump che usa Twitter come una clava, la nuova Amministrazione ha tuttavia preso a lavorare nella direzione indicata dal presidente e, senza farsi frastornare dal clamore assordante delle polemiche continue, ha messo a segno alcuni risultati che dimostrano almeno una cosa: per quanto antipatico e intemperante possa essere o apparire il nuovo presidente degli Stati Uniti, non gli si può muovere l’accusa di non rispettare gli impegni e le promesse fatti al “suo” elettorato durante la campagna elettorale.

Dal taglio delle tasse al rifiuto dei limiti imposti alla produzione industriale dagli Accordi di Parigi per contenere il riscaldamento climatico (che per Trump sono una bufala), dal bando all’immigrazione indiscriminata da Paesi musulmani alla guerra aperta contro l’ISIS, molte delle promesse elettorali di Trump hanno trovato attuazione durante i primi dodici mesi della sua presidenza. Altre invece, come la revisione della riforma sanitaria di Obama, la cosiddetta “Obamacare”, sono ancora al vaglio di un Congresso che, seppur distratto dal lavoro di commissioni insediate al solo scopo di cacciare il presidente, comincia a riprendere la normale attività legislativa. Sulla “Obamacare” Trump è comunque riuscito già a far abrogare quella che in campagna elettorale considerava la misura più odiosa, e cioè la pesante multa per chi rifiutava di accettare di sottoscrivere l’assicurazione obbligatoria contro le malattie.

In politica estera Trump, con una sapiente miscela di minacce e blandizie unita a un’accorta concertazione con Pechino e con Mosca, ha saputo limitare l’aggressività del leader nordcoreano Kim Jong Un, i cui progetti nucleari si sono ampliati per anni nella totale indifferenza dell’Amministrazione Obama.

L’economia e l’occupazione sono ripartite grazie al taglio delle imposte sulle attività produttive – che sono scese dal 35 al 21% – al punto che grandi aziende come la Walmart e la FCA (Fiat Chrysler Automobiles) hanno deciso di aumentare i salari minimi e di concedere consistenti bonus in denaro a centinaia di migliaia di dipendenti. «La riforma fiscale – ha dichiarato al Wall Steet Journal Doug McMillon, amministratore delegato di Walmart – ci dà la possibilità di essere più competitivi nel mondo e di promuovere lo sviluppo degli Stati Uniti».

La decisione di trasferire l’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme era stata annunciata in campagna elettorale e considerata dalla stampa liberal come una mossa propagandistica per ingraziarsi l’influente comunità ebraica. A dicembre Trump, incurante delle richieste di prudenza da parte del Dipartimento di Stato, ha assolto all’impegno promesso e ha dato avvio alle procedure per riconoscere effettivamente Gerusalemme quale capitale di Israele.

Tutte queste mosse e decisioni sono ovviamente discutibili e accettabili o meno. Come detto, un dato comunque emerge da questi travagliati 12 mesi di presidenza Trump: gli impegni presi si rispettano. La metà dell’America che ha votato per l’immobiliarista di New York, può ritenersi soddisfatta per aver visto realizzare in un anno riforme che attendeva da tempo. Trump può non piacere, e non piace, a tanti in America e all’estero. Ma se guardiamo al dibattito elettorale in corso in Italia – nel quale tutti gli esponenti dei partiti in lizza promettono misure miracolose in una gara insensata a chi la spara più grossa – allora forse dovremmo comunque riconsiderare il giudizio sul controverso presidente degli Stati Uniti. Lui, almeno, gran parte delle promesse le mantiene.