La sicurezza dello Stato di Israele in cambio del riconoscimento della vittoria di Assad. È questo, in sostanza, l’accordo sulla Siria raggiunto ieri, lunedì 16 luglio, a Helsinki tra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il presidente russo Vladimir Putin. Un’intesa che, di fatto, proietta Tel Aviv al centro dello scacchiere mediorientale, trascinandosi però dietro l’incognita Teheran, attore alleato di Mosca e nemico di Washington che difficilmente farà un passo indietro rispetto a quanto ottenuto finora con l’impegno militare profuso a sostegno di Assad. In prima fila, tra gli spettatori interessati, c’è proprio il presidente siriano: a Helsinki il suo nome è stato pronunciato pochissime volte, segno che il peggio per il dittatore è ormai definitivamente alle spalle.

 

Le condizioni poste da Israele

 Nelle ultime settimane le forze regolari siriane hanno guadagnato terreno nel sud-ovest della Siria verso i confini con Israele e Giordania, espugnando le ultime sacche di resistenza dei ribelli siriani. Secondo l’osservatorio israeliano Debka File, proprio la mattina del 16 luglio l’esercito siriano si è posizionato lungo le strategiche colline di Tel Al Harrah da dove si controlla l’intero distretto di Quneitra, compreso il valico di confine Ein Zivan-Quneitra, l’unico punto di transito tra Israele e Siria. È un’avanzata che Tel Aviv teme moltissimo considerato che, stando a fonti militari israeliane sentite sempre da Debka File, degli effettivi delle truppe siriane presenti nell’area solo il 20% sarebbe composto da soldati regolari, con il restante 80% formato invece da miliziani di Hezbollah e da milizie sciite fedeli all’Iran.

Per questo motivo, prima dell’incontro tra Trump e Putin il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha posto ai due leader le sue condizioni per continuare a collaborare in Siria: le forze del regime siriano non dovranno fare ulteriori passi in avanti verso le alture del Golan, dunque in direzione della zona demilitarizzata in cui vige formalmente un cessate dal 1974 e che fino allo scoppio della guerra in Siria nel 2011 è stata sotto il controllo dei contingenti ONU.

Il messaggio di Netanyahu è arrivato a Helsinki, come hanno dimostrato le parole di Putin: «Dopo la definitiva sconfitta dei terroristi nel sud-ovest della Siria, la situazione nelle alture del Golan deve essere pienamente rispettata secondo l’accordo di disimpegno del 1974. Ciò riporterebbe stabilità nel Golan, ripristinerebbe il cessate il fuoco e garantirebbe la sicurezza dello Stato di Israele». Nelle sue dichiarazioni Putin ha opportunamente omesso di parlare dei recenti raid aerei israeliani contro obiettivi iraniani in Siria e, soprattutto, del perché i sistemi di difesa aerea russi “inspiegabilmente” non siano stati in grado di intercettarli. Soddisfatto al termine del summit Netanyahu, il quale ha ringraziato entrambi i presidenti.

 

Il futuro degli USA in Siria

Le parole pronunciate da Putin hanno ovviamente fatto piacere anche a Trump, il quale a Helsinki non ha perso l’occasione per tornare a fare pressione sull’Iran: «Ho chiarito che non consentiremo all’Iran di beneficiare della nostra campagna di successo contro l’ISIS». Durante il vertice Trump non ha invece fatto alcun cenno al futuro della presenza militare americana in Siria. Forze speciali USA sono attualmente schierate nella parte centro-orientale del Paese, tra Raqqa e Deir Ezzor. Sono aree controllate dalle forze arabo-curde delle SDF (Forze Democratiche Siriane) e ricche di giacimenti di petrolio e gas, il che spiega gli “incidenti tra alleati” avvenuti negli ultimi mesi. In uno di questi, nel febbraio scorso, caccia americani bombardarono colonne di militari siriani e mercenari russi che stavano marciando in direzione di zone sotto tutela curda.

In più occasioni Trump ha dichiarato l’intenzione di voler richiamare in patria tutte le forze americane presenti in Siria, a causa degli enormi costi economici della missione. Un piano che, secondo diversi analisti, avrebbe come conseguenza il passaggio del dossier Medio Oriente nelle mani di Israele, mossa attraverso la quale Trump punterebbe a ottenere in cambio dalla Russia il ritiro dell’Iran dalla Siria. Non è affatto certo, però, che Putin abbia effettivamente questa capacità di convincimento su Teheran, motivo per cui Trump ha deciso di congelare per ora l’ipotesi di una immediata exit strategy dalla Siria.

Per il momento ai due leader può bastare l’equilibrio trovato sull’intesa per la sicurezza di Israele. Intesa che però, a detta del generale Yossi Kuperwasser, ex capo del reparto analisi dell’intelligence militare israeliana, sentito dal Wall Street Journal, potrebbe non essere sufficiente proprio per Tel Aviv: «Israele vuole che all’Iran non sia permesso di rimanere in tutta la Siria, e non solo nelle alture del Golan». Verità ineccepibile che trova d’accordo Trump e con la quale Putin dovrà invece continuare a fare i conti.

 

La “vittoria” di Assad

Infine Bashar Al Assad. In Finlandia la sua “vittoria” nella guerra siriana è stata data ormai come un elemento assodato anche dagli Stati Uniti. Se il presidente siriano si atterrà all’accordo tra USA e Russia sulla linea di demarcazione tracciata da Israele di fronte alle alture del Golan, il suo regime potrà tenere ancora a lungo. Su quanto territorio e con quanta autonomia è una storia ancora tutta da decifrare.