Le elezioni politiche del 4 marzo 2018 sono state un passaggio che si pensava determinante per il futuro del paese. Eppure, complice una legge elettorale pilatesca, non si scorgono all’orizzonte i segni di un cambiamento davvero epocale e incisivo per il futuro politico del paese. Al contrario, la vittoria a valanga dei Cinque Stelle riporta alla mente le speranze che gli italiani avevano riposto in quel milione di posti di lavoro di berlusconiana memoria. Con la differenza che, ai tempi della crisi economica, tali speranze si sono ridimensionate e ridotte a un ben più modesto reddito di cittadinanza. Ciò nonostante, alcune cose marcheranno una distanza rispetto al passato.

 

La prima. Fine dei giochi per il PD

 

Il Partito Democratico, asse portante di un sistema partitico diffuso e in grado di unire l’intero paese, salterà anche nella migliore delle ipotesi, cioè quella che riesca a esprimere una segreteria robusta come quella guidata da Carlo Calenda. La prossima direzione, infatti, si avvierà inevitabilmente verso un redde rationem tra i suoi dirigenti, che non potrà che concludersi con una separazione, pur se mascherata e non immediata. E così, con la sua fine, contemporaneamente si concluderà un’esperienza storica afferente in ultima analisi al glorioso Partito Comunista, che ha segnato – nel bene e nel male – la vita sociale e culturale dell’Italia, la cui eredità d’ora in avanti sarà affidata soltanto ai libri.

Giorgio Napolitano, Massimo D’Alema e Achille Occhetto ai tempi del PCI

Questo fatto, da solo, potrebbe dirsi epocale. Di certo, sposta l’attenzione verso nuovi modelli di concepire l’esercizio della cosa pubblica, verso nuovi partiti e idee alternative di cui il Movimento 5 Stelle e la Lega “nazionale” sono l’espressione più lampante. Per chi ha rappresentato un argine alla democrazia e una difesa del sociale, tutto ciò sarà considerato un lutto insopprimibile. Per chi invece non ha mai tollerato l’universo della sinistra, sarà visto come un segno liberatorio. Per la destra a trazione leghista, in particolare, il post elezioni resta un’occasione irripetibile per sostituirsi interamente nel tessuto social-nazional-popolare italiano, e innestarvi una diversa mentalità, sfondando finanche al Sud, oggi baluardo del grillismo più sincero.

Dunque, siamo di fronte a un momento creativo per i vecchi e nuovi schieramenti, ma pieno d’incognite e facilmente peggiorativo. Specie se a guidare il rinnovamento saranno quelle forze che si credono rivoluzionarie e che vivono agli estremi di qualsiasi opinione moderata, come spesso è nella mentalità chiusa e provinciale di chi non ha mai governato.

 

La seconda. Una repubblica parlamentare

 

Finalmente, agli occhi degli italiani si paleserà in tutta la sua evidenza costituzionale come l’Italia sia una Repubblica parlamentare e non una presidenziale. E come il voto democratico esprima sempre e soltanto un’assemblea legislativa – che è e resta asse centrale dello stato e delle sue funzioni – e non invece un governo. Apparirà chiaro, cioè, che le elezioni politiche servono per nominare centinaia di rappresentanti del popolo che soltanto in un secondo momento suggeriranno al capo dello stato chi a loro parere debba essere scelto quale presidente del Consiglio. Il quale, peraltro, non necessariamente dev’essere un eletto in parlamento.

Il che, nonostante le espressioni giubilanti di Di Maio «è nata la Terza Repubblica», ci riporta bruscamente alla precedente legislatura, quando cioè il capo dello stato nominò quattro diversi presidenti del Consiglio – peraltro, extraparlamentari – com’era ed è nei suoi poteri e nelle sue prerogative. Se anche stavolta dovesse accadere una cosa simile, perché manca una maggioranza, ciò non rappresenterà un fatto eccezionale ma piuttosto la regola.

Così, se e quando verrà nominato un cosiddetto “tecnico”, non avrà alcun senso gridare al colpo di stato e chi lo farà sarà solo l’ennesimo demagogo. Anche perché, chiunque abbia compreso il significato di gattopardismo, non può e non deve aspettarsi che un governo italiano duri davvero cinque anni.

 

La terza. Il fantasma del Pentapartito

 

Amintore Fanfani, Bettino Craxi e Giulio Andreotti

Augurando il meglio al rinnovamento generazionale che queste elezioni e i leader vincitori Di Maio e Salvini hanno portato in dote, attendiamo di capire come il presidente della Repubblica intende superare l’impasse, e cosa succederà in tal caso: se cioè vedremo scendere in campo chi per anzianità sa già cosa è possibile fare, ripescando esempi dal passato quali il Pentapartito e il primo governo Craxi, trasportandoli nel presente per consentire all’Italia di andare avanti nell’alternanza e non restare senza governo, come già fu negli anni Ottanta.

O se invece verrà sconfessato il risultato delle urne con un ritorno al voto dopo la scrittura di una nuova legge elettorale, secondo la trama di un film già visto e quanto mai nauseante. O se, infine, emergerà una leadership nuova e imprevita che porterà davvero il paese nella Terza Repubblica. Ammesso che in Italia ci sia davvero qualcuno che lo voglia.