«Ci sono stati degli errori che vanno corretti. Non credevo nell’accordo sul nucleare e l’ho più volte sottolineato con il presidente Rohani e con il Ministro degli Esteri Javad Zarif», così la guida suprema iraniana Ali Khamenei si è espresso un paio di giorni fa in merito all’accordo del 2015 e alle tensioni crescenti tra Stati Uniti e Iran. Zarif ha accusato il presidente americano Trump di essere “un terrorista” e rispondendo agli attacchi verbali del Capo della Casa Bianca diretti a Teheran, ha aggiunto che sarà l’Iran a vedere la fine di Trump, e non il contrario. Parole dense di tensione che si aggiungono alla situazione critica nel Golfo Persico e alle manovre militari Usa, che stanno alimentando i timori di un’esclalation. Le dimissioni del Ministro degli Esteri Zarif, poi respinte dal Presidente Rohani, erano state lo specchio delle profonde divisioni presenti in Iran, spaccature interne che riguardano la guerra in Siria e lo stallo sul nucleare.
L’annuncio, a fine febbraio, delle dimissioni del Ministro degli Esteri della Repubblica Islamica dell’Iran, Mohammad Javad Zarif, nel quarantennale della rivoluzione khomeinista ha confermato ciò che negli ambienti governativi si vociferava da tempo: esistono malumori all’interno della compagine guidata dal Presidente Hassan Rohani. E poco importa che lo stesso Rohani abbia poi respinto le dimissioni del suo capo della diplomazia. L’annuncio ha mostrato in maniera chiara che a Teheran non c’è una veduta uniforme sui principali dossier di politica estera. Secondo una parte dei commentatori internazionali il motivo delle dimissioni sarebbe da ricondursi alla guerra in Siria e in particolare all’incontro avvenuto tra la guida suprema Ali Khamenei e il Presidente siriano Bashar al Assad, incontro al quale Zarif non avrebbe partecipato. Zarif aveva affidato la sua decisione a un post su Instagram, nel quale si era scusato «per l’impossibilità di continuare il servizio e per tutte le carenze» nei mesi del mandato, non aggiungendo alcun particolare. Per molti l’annuncio, subito dopo la visita di Assad, è stato il segno evidente di tensioni latenti all’interno dell’esecutivo e della sovrastruttura di potere che domina la politica iraniana. La classica diatriba tra falchi e colombe, se solo si pensa che all’incontro era presente il capo dei Pasdaran Qassem Soleimani, considerato un esponente dell’ala più dura.
Il Presidente Rohani ha subito respinto le dimissioni di Zarif: in primo luogo non può permettersi di perdere uno dei suoi collaboratori più fidati proprio ora che (come dimostra il vertice con Assad) l’ala militarista sembra riprendere maggior vigore nelle decisioni che riguardano soprattutto il posizionamento della Repubblica Islamica dopo la guerra civile in Siria. In secondo luogo Rohani sa bene che, senza Zarif, la sua posizione potrebbe uscirne ancor di più indebolita a causa della crescente “iranofobia” che viene da Washington e Tel Aviv, con il Presidente americano Trump che non perde occasioni per lanciare attacchi a Teheran. Questo specie dopo che la principale scommessa del Governo Rohani, il Joint Comprehensive Plan of Action, ossia l’accordo sul nucleare, si è rivelato un boomerang per il ritiro unilaterale statunitense deciso dalla nuova Amministrazione. Un vero e proprio “schiaffo” al Governo in carica a Teheran e una vittoria per la fazione più conservatrice, che aveva accusato più volte Rohani di aver svenduto il Paese al nemico di sempre. A esacerbare ancor di più i rapporti tra le due “anime” della politica iraniana la questione della normativa anti-riciclaggio e del finanziamento del terrorismo. L’organismo dell’OCSE deputato a tali tematiche, il Gruppo d’Azione Finanziaria Internazionale (GAFI), da tempo ha chiesto a Teheran un adeguamento della sua normativa, cambiamento che potrebbe dare “respiro finanziario” a un’economia piegata dalle sanzioni Usa. Favorevole all’adeguamento è la fazione Rohani-Zarif che vede nella riforma un valido strumento che dovrebbe rendere meno opaca la gestione dei flussi finanziari, spesso amministrati direttamente dai Pasdaran, divenuti dunque una sorta di bancomat del regime.
Le lotte di potere interne a Teheran potrebbero fungere da chiave di lettura per le scelte che la Repubblica Islamica farà a breve. È indiscutibile che negli ultimi anni l’Iran ha giocato un ruolo di assoluto protagonista sulla scena internazionale: in Siria ha svolto un ruolo decisivo per permettere al Presidente Assad di rimanere al potere nonostante divergenze evidenti relative alle scelte strategiche sul campo (specie i contrasti con la linea dura di Soleimani) e in Iraq continua a esercitare un’influenza (risale al mese scorso la storica visita di Rohani a Baghdad con il Presidente a caccia di sponde all’estero), senza dimenticare il ruolo preponderante giocato nel conflitto yemenita. Al momento l’ala riformatrice appare in netta difficoltà, soprattutto se consideriamo il malcontento sociale montante causato dalle sanzioni economiche. Riprendere le redini della politica estera diventa così essenziale per la sopravvivenza politica di Rohani, che non può permettersi ulteriori deviazioni della bussola e che quindi necessita più che mai dell’apporto dei suoi collaboratori più leali. Le dimissioni respinte di Zarif si inseriscono in questa logica e la “vittoria” nel confronto interno relativo alla normativa anti-riciclaggio potrebbe, per il momento, controbilanciare gli equilibri politici.
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