Il continente che dagli anni Cinquanta a oggi ha conosciuto il maggior numero di colpi di stato e rovesciamenti militari: oltre 80, di cui in buona parte riusciti.

L’Egitto mantiene il primato per essere stato il primo e l’ultimo Paese dell’era contemporanea ad aver portato a termine con successo due colpi di stato estremamente significativi: quello dei “Liberi Ufficiali” capitanati dal colonnello Gamal Abdul Nasser nel 1952 (poi presidente dal 1956 al 1970), e quello a opera dei militari che nel 2013 hanno destituito il presidente islamista Mohammed Morsi, spianando la strada alla presidenza dell’ex maresciallo Abdel Fattah Al-Sisi, attualmente in carica.

Nonostante la predisposizione al putsch che le leadership di governo africane e le caste militari hanno dimostrato di possedere, la “terra dei complotti e dei rovesciamenti” sembra comunque osservare da qualche anno a questa parte una relativa tendenza all’adozione di principi e meccanismi democratici. Complici le vincolanti posizioni di ONU, Unione Africana, Lega Araba e più in generale della comunità internazionale nei confronti di eventuali generali ribelli, oggi in Africa lo stato di diritto, la legalità, la mediazione e la conciliazione politica rappresentano la via meno accidentata verso il potere.

Lo ha dimostrato ad esempio, nel maggio del 2015, l’elezione a presidente della Nigeria dell’ex generale maggiore Muhammadu Buhari, che ha ottenuto il mandato dopo tre tentativi falliti alle urne (nel 2003, 2007 e 2011) ma soprattutto dopo essere salito al potere nel 1983 attraverso il colpo di stato militare che rimosse Shehu Shagari. E lo ha dimostrato in parte la transizione in Burkina Faso, seguita al golpe dell’ottobre del 2014 con cui veniva deposto il presidente Blaise Compaoré (a sua volta salito al potere a seguito di un sanguinoso colpo di stato) e al successivo rovesciamento del governo di transizione nel settembre del 2015 da parte di una giunta militare (il Consiglio Nazionale per la Democrazia, che ha nominato il generale Gilbert Diendéré alla presidenza). Le elezioni presidenziali che si sono svolte nel novembre del 2015, nelle quali si è affermato alla guida del Paese Roch Marc Christian Kaboré, rappresentano la prima volta nella storia del Burkina Faso, dall’indipendenza dalla Francia nel 1960, in cui chi ha ottenuto il potere lo ha fatto attraverso elezioni democratiche e non tramite un golpe militare.

 

Ex putschisti oggi presidenti

Eppure in Africa sono tanti gli ex generali putschisti divenuti capi di stato, tuttora in carica, che hanno assunto il potere a seguito di ribellioni o guerre civili e con cui la comunità internazionale è scesa a compromessi nella convinzione che lo status quo sia in alcuni casi la soluzione preferibile in cambio di stabilità.

È il caso del ciadiano Idriss Déby Itno, che nel 1990 alla guida del Movimento Patriottico di Salvezza rovesciò il presidente dittatore Hissène Habré rimanendo da allora alla guida del Paese (rieletto nel 1996, 2001, 2006, 2011 e nell’aprile del 2016) nonostante le numerose accuse di brogli, corruzione e persino il sospetto di aver avuto un ruolo nell’assassinio di alcuni suoi avversari politici.

O il caso del congolese Denis Sassou Nguesso, che dopo essere salito al potere dal 1979 a seguito di un colpo di Stato, fu spodestato nel 1992 da Pascal Lissouba, suo contendente alle presidenziali, e tornò alla guida del Paese nel 1997 al termine del conflitto civile scatenato durante le presidenziali dello stesso anno. Dopo la modifica della Costituzione (che gli impediva di ricandidarsi per un quarto mandato) Sassou Nguesso è stato riconfermato presidente della Repubblica del Congo nel marzo del 2016.

Percorsi paralleli uniscono tuttora i presidenti di Uganda e Rwanda, Yoweri Museveni e Paul Kagame. Fondatore del Movimento Nazionale di Resistenza e del suo braccio armato (NRA) con cui conquistò il potere nel 1986, Museveni è da oltre trent’anni capo di Stato in Uganda, riconfermato al suo quinto mandato alle presidenziali dello scorso febbraio. Nonostante le accuse di brogli e l’atmosfera intimidatoria a più riprese denunciata da osservatori internazionali e ONG locali, Museveni è un alleato prezioso per gli USA nella lotta al terrorismo in Africa nonché uno dei maggiori contribuenti ai contingenti militari nelle missioni di pace di UA e ONU, ragion per cui il suo radicamento al potere non suscita le stesse preoccupazioni che altrove.

Nel vicino Rwanda è grazie al sostegno di Museveni che nel 1994 Paul Kagame prese il potere alla guida del Fronte Patriottico Ruandese, movimento militante nato per contrastare il genocidio contro i Tutsi (Kagame è di etnia tutsi) e che una volta al potere si accanì contro gli Hutu. Eletto formalmente nel 2000, Kagame mantiene di fatto le redini del Paese sin dal 1994 quando fu nominato vice presidente e ministro della Difesa. Considerato un criminale di guerra dalle Nazioni Unite, l’attuale capo di Stato ruandese corre già da favorito in vista delle presidenziali del 2017.

 

Putsch da record

Tanti altri casi sarebbero degni di nota in questo contesto. Il sudanese Omar al-Bashir è al potere dal 1989 quando, da colonnello dell’esercito, diresse il golpe per rimuovere l’allora presidente Ahmed al-Mirghani. Il mauritano Mohamed Ould Abdelaziz è stato invece eletto presidente nelle elezioni del 2009 dopo essere stato l’artefice del colpo di stato che nell’agosto del 2008 ha spodestato Sidi Mohamed Ould Cheikh Abdallahi. Il gambiano Yahya Jammeh è stato in carica dal 1994 – anno del colpo di Stato che rimosse Dawda Jawara – al 2017, quando è stato costretto a cedere il posto di presidente al vincitore delle ultime elezioni Adama Barrow.

Ma è il presidente della Guinea Equatoriale, Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, a guadagnarsi il primato di capo di stato africano putschista più longevo, rimasto in carica ininterrottamente dal 1979 quando rimosse con un colpo di stato militare il regime autoritario di suo zio Francisco Macias Nguema. Il piccolo paese ricco di giacimenti di petrolio e gas naturale, anche denominato “la Corea del Nord africana” proprio per via dello strapotere della famiglia Obiang, rappresenta oggi il peggior esempio di cleptocrazia (modalità di governo deviata che rappresenta il culmine della corruzione politica), con un presidente 74enne rieletto al suo quinto mandato (settennale) alle elezioni dello scorso aprile.

I recenti falliti colpi di stato in Burundi e Burkina Faso rappresentano invece i due più goffi tentativi di rovesciamento da parte di giunte militari, non sufficientemente sostenute dai propri apparati. Il generale Gilbert Diendéré, ex braccio destro di Compaoré e capo delle Forze del Reggimento per la Sicurezza Presidenziale (RSP), non è rimasto che appena una settimana al potere prima di essere consegnato alle autorità di transizione (guidate dall’allora presidente Michel Kafando e dal primo ministro Isaac Zida) con l’accusa di alto tradimento, minaccia alla sicurezza nazionale e crimini contro l’umanità.

Ancora più maldestro, se possibile, il fantomatico colpo di stato in Burundi ridotto a semplice “ammutinamento di un gruppo di militari” nel resoconto del presidente Pierre Nkurunziza, uscito doppiamente vincitore dal tentato rovesciamento del maggio 2015 a opera di un suo vecchio compagno d’armi, il generale Godefroid Niyombare. Questi è infatti sparito dalla scena pubblica dopo aver perso il sostegno dei comparti militari nell’insurrezione fallita in meno di due giorni, mentre il presidente Nkurunziza si è aggiudicato senza sorpresa il suo terzo mandato alle presidenziali del luglio 2015 nonostante la sua ricandidatura (ritenuta anticostituzionale) fosse stata alla base delle contestazioni popolari che hanno ispirato il golpe. Mentre si può parlare di vero e proprio “golpe dolce” nel caso dello Zimbabwe, con la detronizzazione nella notte tra il 14 e il 15 novembre 2017 del presidente Robert Mugabe – in carica dal 1987 al 2017 – sostituito da Emmerson Dambudzo Mnangagwa.